«Noi, come Eluana donate al mistero» «Qui in clausura tutte commosse dalla dedizione delle sorelle di Lecco, come Cristo chinate sul dolore» DI MARINA CORRADI
I n clausura non c’è la televisione, in clausura non entrano i quotidiani, tranne Avvenire e l’Osservatore Romano. E dunque le settantacinque fra sorelle e novizie e postulanti del monastero trappista di Vitorchiano sono state tra le ultime a sapere, il mattino dopo, della morte di Eluana Englaro. Avevano pregato molto per lei, nel ciclo costante di preghiere che abbraccia tutta la giornata in convento, e che comincia con quelle della vigilia, nella notte fonda, ben lontana dall’alba. «La storia di Eluana si è imposta alla nostra attenzione - dice dalla clausura la superiora, madre Rosaria Spreafico - perché il dibattito attorno a lei tocca temi troppo importanti per tutti noi. Abbiamo seguito il suo dramma attraverso Avvenire, e ringraziamo il giornale per il coraggio con cui sostiene costantemente il valore della vita. Noi abbiamo potuto sostenere Eluana con la preghiera, e abbiamo anche cercato di accompagnarla facendo personalmente scelte che affermassero la vita, la verità e il rispetto reciproco: questo ci sembrava più importante delle parole che avremmo potuto dire». Eluana è morta per disidratazione, è morta di sete. È stata abbandonata alla sua impotenza. Che pensieri ha suscitato tra voi questa morte? Direi, quasi, che abbiamo faticato a credere che sia accaduto davvero. Ci è impossibile pensare che si possa stare a guardare una persona morire di sete. Come può una donna essere lasciata morire in questo modo, quando sappiamo che oggi in Italia si è denunciati - giustamente - se si usa crudeltà verso gli animali? Diciassette anni di stato vegetativo sono un tempo eccezionale, un destino fuori dal comune. Sorge anche fra voi, come tra tanti altri, e anche credenti, la domanda, o la ribellione, circa il senso di una vita così? A noi sembra che il cuore di tutta questa vicenda sia proprio questo: qual è il senso di una vita? Chi lo decide? Non solo la vita di Eluana in quelle condizioni, ma quella di tutti noi. Il nostro tempo sembra aver smarrito le domande e le risposte sul senso della vi- ta, o almeno il desiderio di affrontarle seriamente. Forse nella vita normale di tutti i giorni, fuori da queste mura, non ci si interroga più sul significato della propria vita, e una domanda così essenziale per chiunque viene alla ribalta solo di fronte a situazioni estreme. Il modello di 'senso' che oggi si propone è quello della persona di successo, efficiente, in ottima salute e forma: questo è davvero un 'significato' esauriente che giustifica l’esistenza di tanti? È l’unico parametro sul quale giudicare la credibilità di una vita? Vede, anche la nostra vita in clausura viene spesso guardata come una vita senza senso, senza opere e risultati. Mentre noi sperimentiamo che l’opera vera della vita è vivere, questo porta a scoprire tutta l’esistenza come dono gratuito, in qualsiasi situazione. Nessuna vita è esente dal dolore, dal limite, dalla sofferenza e dalla morte. Noi lo vediamo concretamente nel declino delle nostre madri anziane, molto spesso bisognose di tutto, ma anche nel nostro stesso essere più che imperfette. È l’accettazione semplice delle circostanze che porta a riconoscere che tutto, proprio tutto, è degno di essere vissuto. Dentro l’affermazione di una ipotesi positiva su tutto quello che accade, ciò che si impara e si afferma è la dignità di noi stessi e degli altri, che nessun condizionamento può intaccare; questa esperienza è per noi la più vicina all’amore e alla felicità. Il padre ha lottato per diciassette anni perché fosse data la morte alla figlia. Tra chi ha dei figli, suscita stupore questa determinazione: preferirei un figlio in coma a un figlio morto, dicono in molti. Come interpretate voi la lunga lotta del signor Englaro? La Sacra Scrittura dice che 'il cuore dell’uomo è un abisso' e che solo Dio può conoscerlo. Ci sembra che la lunga lotta del signor Englaro sia stata quella di chi non può accettare che dolore e sofferenza appartengono al mistero della vita, che la vita non ci appartiene. Se non ci apriamo a questo mistero il dolore diventa un’obiezione insormontabile, qualcosa che è necessario eliminare. Le suore Misericordine di Lecco hanno per molti anni curato Eluana come madri. Sembrano il simbolo della più grande delle maternità, della gratuità pura; di un altro amore, tuttavia, possibile. È vero. La dedizione di queste sorelle ci ha commosso, e ci chiediamo come si possa inneggiare alla morte di fronte al fatto che esistono delle persone che difendono la vita, donando la loro. Ma ripetiamo: è la fede in Cristo che suscita l’amore alla vita, perché con Cristo abbiamo imparato che la risurrezione e l’eternità sono la vera 'stoffa' della vita, e lo sperimentiamo fin da quaggiù. Il corpo di Eluana, abbandonato alla morte per sete, non sembra esso stesso un simbolo di Cristo? Di quel crocifisso che oggi spesso si rimuove dai muri perché simbolo di una inaccettabile sofferenza? Una volta ho sentito dire che l’unica cosa che i cristiani hanno saputo fare in duemila anni è stata costruire una mistica del dolore, a partire dalla loro idolatria per il corpo sofferente di Cristo sulla croce. Quanta ignoranza occorre per dire una cosa simile. Se noi amiamo Cristo in croce, e così possiamo abbracciare senza scandalo il dolore, è proprio perché la croce è la sconfitta della sofferenza sterile. Gesù Cristo non ha fatto un discorso sul dolore: lo ha assunto su di sé e lo ha trasformato nella via della resurrezione. Ha sperimentato cosa significhi la solitudine estrema del dolore, ed in questo modo è diventato la vera compagnia per chiunque soffre. È una compagnia, la sua, che si fa molto concreta: perché chinarsi sul dolore degli altri come hanno fatto quelle suore di Lecco rende presente la tenerezza di Cristo, che attraverso mani umane continua a ripetere: non temete, io ho vinto, e dove sono io sarete anche voi con me. Fuori dalla clinica di Udine alla notizia della morte alcuni hanno applaudito, quasi che Eluana avesse vinto la sua liberazione. Voi avete la percezione di quanto un favor mortis nemmeno tanto tacito si vada diffondendo, nel mondo esterno? Sì. Legislazioni come quelle sull’aborto, e l’eutanasia che oggi si tenta di introdurre in molti Paesi, sono fatte passare per strumenti di diritto e di pietà, ma mostrano un favor mortis, più che il gusto di vivere. Sicuramente far morire è più facile, sbrigativo ed economico che favorire la nascita, lo sviluppo e il declinare naturale della vita. A questo proposito ci sembra che se in Europa il nazismo ha perso la guerra, il nichilismo di cui era alimentato stia vincendo nelle società occidentali. Per molti anni nessun giudice ha raccolto la richiesta del signor Englaro. Poi un’abile regia politica si è servita di questa storia per scardinare il sentire di un grande numero di italiani. Si è parlato molto di 'giustizia', di una sentenza che 'doveva essere applicata'. Cosa pensate voi di questa 'giustizia'? L’unica cosa che riusciamo a rispondere è che noi in questa vicenda ci siamo sentite vittime di una estrema ingiustizia. Ci siamo trovate di fronte a un giudizio inappellabile, come se la giustizia fosse una divinità intoccabile. E ci preoccupa la strada che sembra aprirsi: chi e come deciderà come dovremo morire, se l’unico criterio è che c’è una sentenza da rispettare? Temiamo che quella che oggi viene presentata come una sentenza che giustifica una scelta, preceda un domani in cui altre sentenze obbligheranno a una scelta. Cosa direste oggi a questo padre, così tenace nel chiedere la morte della figlia, e oggi, probabilmente, così solo? Che esiste una vita che nessuno potrà mai togliere a Eluana. Che esiste il perdono di Dio, e che il Suo amore è più forte della morte. «Aborto ed eutanasia non sono strumenti di diritto e di pietà, ma mostrano un «favor mortis», più che il gusto di vivere»
Avvenire 15/02/09
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