domenica 15 febbraio 2009

Un giudizio su Englaro da parte delle monache trappiste i Vitorchiano




«Noi, come Eluana donate al mistero» «Qui in clausura tutte commosse dalla dedizione delle sorelle di Lecco, come Cristo chinate sul dolore» DI MARINA CORRADI


I n clausura non c’è la te­levisione, in clausura non entrano i quotidia­ni, tranne Avvenire e l’Os­servatore Romano. E dun­que le settantacinque fra sorelle e novizie e postu­lanti del monastero trappi­sta di Vitorchiano sono sta­te tra le ultime a sapere, il mattino dopo, della morte di Eluana Englaro. Aveva­no pregato molto per lei, nel ciclo costante di pre­ghiere che abbraccia tutta la giornata in convento, e che comincia con quelle della vigilia, nella notte fon­da, ben lontana dall’alba. «La storia di Eluana si è im­posta alla nostra attenzio­ne - dice dalla clausura la superiora, madre Rosaria Spreafico - perché il dibat­tito attorno a lei tocca temi troppo importanti per tut­ti noi. Abbiamo seguito il suo dramma attraverso Av­venire, e ringraziamo il giornale per il coraggio con cui sostiene costantemen­te il valore della vita. Noi abbiamo potuto sostenere Eluana con la preghiera, e abbiamo anche cercato di accompagnarla facendo personalmente scelte che affermassero la vita, la ve­rità e il rispetto reciproco: questo ci sembrava più im­portante delle parole che a­vremmo potuto dire». Eluana è morta per disi­dratazione, è morta di se­te. È stata abbandonata al­la sua impotenza. Che pensieri ha suscitato tra voi questa morte? Direi, quasi, che abbiamo faticato a credere che sia accaduto davvero. Ci è im­possibile pensare che si possa stare a guardare una persona morire di sete. Co­me può una donna essere lasciata morire in questo modo, quando sappiamo che oggi in Italia si è de­nunciati - giustamente - se si usa crudeltà verso gli a­nimali? Diciassette anni di stato vegetativo sono un tempo eccezionale, un destino fuori dal comune. Sorge anche fra voi, come tra tanti altri, e anche creden­ti, la domanda, o la ribel­lione, circa il senso di una vita così? A noi sembra che il cuore di tutta questa vicenda sia proprio questo: qual è il senso di una vita? Chi lo de­cide? Non solo la vita di E­luana in quelle condizioni, ma quella di tutti noi. Il no­stro tempo sembra aver smarrito le domande e le risposte sul senso della vi- ta, o almeno il desiderio di affrontarle seriamente. Forse nella vita normale di tutti i giorni, fuori da que­ste mura, non ci si interro­ga più sul significato della propria vita, e una doman­da così essenziale per chiunque viene alla ribalta solo di fronte a situazioni estreme. Il modello di 'sen­so' che oggi si propone è quello della persona di suc­cesso, efficiente, in ottima salute e forma: questo è davvero un 'significato' e­sauriente che giustifica l’e­sistenza di tanti? È l’unico parametro sul quale giudicare la credibi­lità di una vita? Vede, anche la nostra vita in clausura viene spesso guardata come una vita senza senso, senza opere e risultati. Mentre noi speri­mentiamo che l’opera vera della vita è vivere, questo porta a scoprire tutta l’esi­stenza come dono gratui­to, in qualsiasi situazione. Nessuna vita è esente dal dolore, dal limite, dalla sof­ferenza e dalla morte. Noi lo vediamo concretamen­te nel declino delle nostre madri anziane, molto spes­so bisognose di tutto, ma anche nel nostro stesso es­sere più che imperfette. È l’accettazione semplice delle circostanze che porta a riconoscere che tutto, proprio tutto, è degno di es­sere vissuto. Dentro l’affer­mazione di una ipotesi po­sitiva su tutto quello che accade, ciò che si impara e si afferma è la dignità di noi stessi e degli altri, che nes­sun condizionamento può intaccare; questa esperien­za è per noi la più vicina al­l’amore e alla felicità. Il padre ha lottato per di­ciassette anni perché fosse data la morte alla figlia. Tra chi ha dei figli, suscita stu­pore questa determinazio­ne: preferirei un figlio in coma a un figlio morto, di­cono in molti. Come inter­pretate voi la lunga lotta del signor Englaro? La Sacra Scrittura dice che 'il cuore dell’uomo è un a­bisso' e che solo Dio può conoscerlo. Ci sembra che la lunga lotta del signor En­glaro sia stata quella di chi non può accettare che do­lore e sofferenza apparten­gono al mistero della vita, che la vita non ci appartie­ne. Se non ci apriamo a questo mistero il dolore di­venta un’obiezione insor­montabile, qualcosa che è necessario eliminare. Le suore Misericordine di Lecco hanno per molti an­ni curato Eluana come madri. Sembrano il sim­bolo della più grande del­le maternità, della gratuità pura; di un altro amore, tuttavia, possibile. È vero. La dedizione di que­ste sorelle ci ha commosso, e ci chiediamo come si pos­sa inneggiare alla morte di fronte al fatto che esistono delle persone che difendo­no la vita, donando la loro. Ma ripetiamo: è la fede in Cristo che suscita l’amore alla vita, perché con Cristo abbiamo imparato che la risurrezione e l’eternità so­no la vera 'stoffa' della vi­ta, e lo sperimentiamo fin da quaggiù. Il corpo di Eluana, abban­donato alla morte per sete, non sembra esso stesso un simbolo di Cristo? Di quel crocifisso che oggi spesso si rimuove dai muri perché simbolo di una inaccetta­bile sofferenza? Una volta ho sentito dire che l’unica cosa che i cri­stiani hanno saputo fare in duemila anni è stata co­struire una mistica del do­lore, a partire dalla loro i­dolatria per il corpo soffe­rente di Cristo sulla croce. Quanta ignoranza occorre per dire una cosa simile. Se noi amiamo Cristo in cro­ce, e così possiamo ab­bracciare senza scandalo il dolore, è proprio perché la croce è la sconfitta della sofferenza sterile. Gesù Cri­sto non ha fatto un discor­so sul dolore: lo ha assun­to su di sé e lo ha trasfor­mato nella via della resur­rezione. Ha sperimentato cosa significhi la solitudi­ne estrema del dolore, ed in questo modo è diventa­to la vera compagnia per chiunque soffre. È una compagnia, la sua, che si fa molto concreta: perché chinarsi sul dolore degli al­tri come hanno fatto quel­le suore di Lecco rende pre­sente la tenerezza di Cristo, che attraverso mani umane continua a ripetere: non te­mete, io ho vinto, e dove so­no io sarete anche voi con me. Fuori dalla clinica di Udi­ne alla notizia della morte alcuni hanno applaudito, quasi che Eluana avesse vinto la sua liberazione. Voi avete la percezione di quanto un favor mortis nemmeno tanto tacito si vada diffondendo, nel mondo esterno? Sì. Legislazioni come quel­le sull’aborto, e l’eutanasia che oggi si tenta di intro­durre in molti Paesi, sono fatte passare per strumen­ti di diritto e di pietà, ma mostrano un favor mortis, più che il gusto di vivere. Sicuramente far morire è più facile, sbri­gativo ed eco­nomico che fa­vorire la nasci­ta, lo sviluppo e il declinare na­turale della vita. A questo propo­sito ci sembra che se in Euro­pa il nazismo ha perso la guerra, il nichilismo di cui era alimentato stia vincen­do nelle società occidenta­li. Per molti anni nessun giu­dice ha raccolto la richie­sta del signor Englaro. Poi un’abile regia politica si è servita di questa storia per scardinare il sentire di un grande numero di italiani. Si è parlato molto di 'giu­stizia', di una sentenza che 'doveva essere applicata'. Cosa pensate voi di questa 'giustizia'? L’unica cosa che riusciamo a rispondere è che noi in questa vicenda ci siamo sentite vittime di una e­strema ingiustizia. Ci sia­mo trovate di fronte a un giudizio inappellabile, co­me se la giustizia fosse una divinità intoccabile. E ci preoccupa la strada che sembra aprirsi: chi e come deciderà come dovremo morire, se l’unico criterio è che c’è una sentenza da ri­spettare? Temiamo che quella che oggi viene pre­sentata come una senten­za che giustifica una scel­ta, preceda un domani in cui altre sentenze obbli­gheranno a una scelta. Cosa direste oggi a questo padre, così tenace nel chie­dere la morte della figlia, e oggi, probabilmente, così solo? Che esiste una vita che nes­suno potrà mai togliere a E­luana. Che esiste il perdo­no di Dio, e che il Suo a­more è più forte della mor­te. «Aborto ed eutanasia non sono strumenti di diritto e di pietà, ma mostrano un «favor mortis», più che il gusto di vivere»


Avvenire 15/02/09

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