sabato 23 febbraio 2013

Elezioni Lombardia. Perché votare Maroni | Tempi.it

Se volete sapere perché in Lombardia bisogna votare Maroni, non leggete Repubblica e Corriere, ma questi dati qui

Repubblica e il Corriere della Sera, l'impresa di Carlo De Benedetti e l'azienda dei signori delle cliniche private e dei banchieri, vogliono la Lombardia. E ne hanno ben donde. È l'unica regione che ha ancora 10 milioni di vacche da mungere e un bilancio che non è in rosso come le amministrazioni da Torino in giù.

Per questo, fino all'ultimo minuto, fino a lunedì 25 febbraio, leggerete di tutto sui giornaloni che alla propaganda dei partiti fanno un baffo. Repubblica e Corriere non sono stati capaci di scrivere una sola riga di quanto riportiamo qui in calce. Che è solo un minuscolo sunto di cronaca, semplicemente cronaca, dei risultati di 17 anni di governo Pdl-Lega a guida Roberto Formigoni. Cronaca di cui i giornali autorevoli e nazionali, se fossero davvero autorevoli e al servizio del libero e consapevole voto degli italiani, dovrebbero tenere almeno un po' in conto.

E invece niente. Dritti a testa a bassa ad onorare le ultime veline dei tribunali. Veline confezionate per l'occasione e per portare al Pirellone il candidato delle sinistre che non ha alcuna esperienza di amministrazione pubblica. Ma che, in compenso, ha buone relazioni nei tribunali. E ha fatto il membro del consiglio di amministrazione del Corriere. È da mesi che vanno avanti così.

E adesso scrivono che se vince il centrodestra «c'è il rischio della Repubblica di Salò». Scrivono che se in Lombardia diventa Governatore l'unico ministro dell'Interno che ha ottenuto grandi risultati nella lotta alla criminalità organizzata – Bobo Maroni, quello che davvero ha fatto male alle mafie sequestrando più beni e arrestando più delinquenti di quelli che hanno sequestrato e arrestato tutti gli altri ministri e governi – finisce l'unità d'Italia. Stanno sparando a palle incatenate le dichiarazioni di un giudice della Corti dei Conti che fino a ieri ha scritto meraviglie dell'eccellenza lombarda, ma che adesso, giusto a 48 ore dal voto, definisce la Lombardia una cloaca peggio di Tangentopoli.

Le belle balle rosse sono liberate nell'aria perché i giornali di regime devono fare di tutto per sequestrare il benessere dei lombardi e trasferirlo ai padroni. I padroni che hanno fatto i sistemi campani e senesi, i sistemi romani e pugliesi. I padroni che hanno dissanguato l'Italia e che adesso devono dissanguare l'ultima regione rimasta con i conti a posto, che ripiana il debito a quelle che, come la Campania, fanno fallire le farmacie perché pagano i crediti a milleduecento giorni e che mentre la Lombardia si è fatta un decennio con bilanci in pareggio, loro – Lazio, Campania, Puglia Abruzzo, Molise, Calabria eccetera – sono regioni che si son fatte mediamente dai 500 milioni a 1 miliardo di euro di debiti l'anno, per dieci anni, solo nella sanità.

Miliardi e miliardi ripiananti in parte maggiore dai lombardi ma che oggi, febbraio dell'anno 2013, dopo i 12 miliardi a fondo perduto (una mezza finanziaria versata a 5 regioni!) stanziati dal governo Prodi nel 2007, non hanno salvato dal baratro in cui affogano, appunto, regioni come la Campania, il Lazio, la Puglia, l'Abruzzo, il Molise, la Calabria.

E allora, Lombardia come la Repubblica di Salò? Lombardia egoista e isolazionista contro il resto d'Italia? Ma se la Lombardia ha finanziato e finanzia da sola ben il 55 per cento del Fondo Perequativo nazionale che ai sensi dell'articolo 119 comma 3 della Costituzione ha la finalità di integrare le risorse finanziarie delle Regioni con minore capacità fiscale!

Perciò, cari lombardi, adesso c'è una sola cosa da fare: ciascuno di voi porti almeno dieci voti al candidato Governatore Bobo Maroni. E se non siete ancora convinti di dare il voto al leader della coalizione Pdl-Lega che si presenta come un "continuatore" e "migliorista" delle amministrazioni Formigoni, prima di votare fate ancora in tempo a informarvi.

Fate le debite ricerche, cari elettori, e una bella rassegna stampa online dei dati lombardi. Digitate "Lombardia" e andate sui siti di economia indipendenti. Andate su Ocse e Istat. Ma anche negli archivi del Sole 24 Ore, Italia Oggi, Milano Finanza, Financial Times, Wall Street Journal. E poi bussate all'Autorità italiana per le Garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) e chiedete una dirimente passerella televisiva, in prima serata, per presentare i dati che avete raccolto voi e quelli che in questi mesi di campagna elettorale anticipata hanno sbianchettato i corrieri della sera e le repubbliche.

Bussate e chiedete. State sicuri che nessuno vi aprirà. E nessuno vi darà risposta. Perché al cuore dello Stato mangione vi vogliono schiavi della disinformazione. E perciò vi vogliono al voto pieni di rabbia, emotività, superficialità. Solo in questo modo, in questa confusione, rabbia, emozione, potrebbe vincere chi vi porterebbe via, lontano, con tante balle rosse e grilline, la continuità e il miglioramento del buon governo di Lombardia garantiti dalla squadra dell'ex ministro dell'Interno Bobo Maroni.

Ed ecco, qui di seguito, solo alcuni dei dati sulla Lombardia contenuti nel servizio di copertina del numero di Tempi in edicola.

Sanità
Bilancio in equilibrio per undici anni consecutivi, con costi della sanità al 5,4% del Pil contro una media nazionale del 7,2% e più di 750 milioni di euro di crediti vantati nei confronti di altre regioni, i cui pazienti preferiscono venire a curarsi in Lombardia. Esenzione dal ticket per circa la metà della popolazione lombarda. Investimenti in edilizia sanitaria per 4,5 miliardi in dieci anni, 8 nuovi ospedali, 600 interventi o cantieri. Sei istituti di ricerca medica lombardi collocati tra i migliori dieci italiani. Accreditamento e attivazione di 39mila posti letto. Taglio netto agli sprechi in ricoveri inutili, con un calo del 18% in tre anni.

Scuola
Buono scuola per le famiglie e dote scuola, che interessano 300mila studenti dai 6 ai 18 anni, il 30% degli studenti lombardi.
Una riforma della formazione professionale che fa della Lombardia è la regione con il più alto numero di giovani iscritti. Oltre il 20% degli allievi trova occupazione nei sei mesi e il 40% entro un anno.
Con la dote apprendistato la Lombardia offre a tutti i giovani fra i 15 e i 18 anni l'opportunità di essere assunti in azienda con un contratto di apprendistato e al tempo stesso di conseguire un titolo di studio.

Famiglia e Welfare
Fattore Famiglia Lombardo, introdotto in via sperimentale un indicatore migliorativo dell'ISEE che agevola i nuclei familiari con più carichi di cura.
Il migliore ospedale è casa tua: 122mila persone anziane o con disabilità assistite a domicilio.
Asili nidi passati dai 30.000 posti del 2005 a 62.896 di oggi.
3.386 mamme che hanno deciso liberamente di non interrompere la gravidanza aiutate grazie ai contributi del Fondo Nasko.
Dal 2008 contributo economico mensile da 500 euro a 2.500 alle famiglie delle persone affette da Sla e da altre malattie rare.
12 milioni di euro all'anno, dal 2007, come risorse aggiuntive per lunga assistenza.
500 persone in stato vegetativo assistite quotidianamente e, dal 2009, contributo mensile di 500 euro alle famiglie che seguono il malato in casa.
Risorse destinate alla non autosufficienza per oltre 55 milioni nel 2010 e oltre 70 nel 2011.
Istituzione del Tavolo del Terzo Settore.
Approvazione del "Piano per la disabilità" e progetti pilota a sostegno della fragilità.
Aiuti alimentari alle famiglie in difficoltà: 700.000 euro da destinare al Banco Alimentare che, muovendo cibo e derrate per un totale di 20 milioni di euro l'anno, distribuisce alimenti a circa 600 organizzazioni distribuite sul territorio.

Impresa
Interventi anticrisi solo nel 2011 e il 2012.
500 milioni per sostenere la liquidità delle Pmi lombarde grazie a un accordo con la Banca Europea degli Investimenti.
103 milioni di doti per rilanciare il lavoro e l'impresa in regione.
137 milioni di euro per inoccupati e disoccupati solo nel 2011 e 100 milioni di euro di politiche attive per cassintegrati Dal 2009 al 2011 74.000 beneficiari della Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali (l'82% ha trovato lavoro) e 12.000 giovani beneficiari della Dote Formazione (fino a 5.000 euro) per formazione post diploma e post laurea.


Categorie: Politica
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lunedì 18 febbraio 2013

Incontro con i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma, Benedetto XVI, 14 febbraio 2013

Incontro con i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma, Benedetto XVI, 14 febbraio 2013

INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

[Video]

 

Eminenza,
cari fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio!

E' per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E' sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E' un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all'essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l'universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev'essere la città dell'universalità, dev'essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l'aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.

Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell'Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell'Apostolo al quale il Signore ha detto: "A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa" (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: "Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo" (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l'ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.

Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l'ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel '59 professore all'Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel '61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l'Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.

Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l'avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l'udienza, il Cardinale ha detto: "Forse adesso porto per l'ultima volta questo abito". Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: "Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole". Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre '62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.

Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C'era un'aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po' ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell'oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall'inizio, era un po' contrastante, cominciando con l'errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l'unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell'umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.

Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po', volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.

Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al "Collegio dell'Anima", dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un'esperienza dell'universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall'alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.

Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l'episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta "alleanza renana". E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l'attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l'ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l'ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.

Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell'Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull'altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse "Et cum spiritu tuo" eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell'altare e la liturgia del popolo fosse un'unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.

Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell'adorazione. "Operi Dei nihil praeponatur": questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all'adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l'adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.

Ve n'erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell'essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell'anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l'incontro con il Risorto, e dall'incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l'inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l'inizio, l'inizio della Creazione, è l'inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all'amore di Dio.

Poi c'erano dei principi: l'intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell'Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.

Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un'ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall'inizio c'era questa intenzione di completare l'ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: "Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa", e un vescovo protestante parlava del "secolo della Chiesa". Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un'organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l'Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell'ecclesiologia del Vaticano I.

Direi che la discussione teologica degli anni '30-'40, anche '20, era completamente sotto questo segno della parola "Mystici Corporis". Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero "noi" dei credenti, insieme con l'"Io" di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non "un noi", un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo "noi siamo Chiesa" esige proprio il mio inserimento nel grande "noi" dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l'ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola "collegialità", molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po' esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un'altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.

Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell'ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni '40, negli anni '50, era già nata un po' di critica nel concetto di Corpo di Cristo: "mistico" sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di "Popolo di Dio". E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola "Laos tou Theou", corrispondente ai testi dell'Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l'antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, "goim", del mondo, sono "il" Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l'unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto "Popolo di Dio" implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l'elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell'ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.

Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po' nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell'unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l'espressione dell'essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell'episcopato e nella vita della Chiesa.

Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po' – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po' "handicappati" dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c'è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un'ultima chiarezza.

Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l'andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l'idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula "non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura", cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l'indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall'illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.

Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l'esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c'è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l'applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.

E, infine, l'ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le "passioni" dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l'unità, almeno cercare l'unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l'unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l'"alleanza renana" – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.

La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l'America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l'America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l'Africa, l'Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all'inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento "Gaudium et spes" ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all'eternità, e così ha anche rinnovato l'etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la "Nostra aetate". Dall'inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull'Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell'antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po' una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un'indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell'Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l'Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l'Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po', ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.

Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull'Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l'Asia! Pensate al Buddismo, all'Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull'antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent'anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l'essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull'unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c'è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c'è l'esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l'uno all'altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.

Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e "Nostra aetate", connessi con "Gaudium et spes" sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell'unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.

Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c'era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c'era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all'interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l'intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all'interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all'interno della fede, ma all'interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un'ermeneutica diversa. Era un'ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C'erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola "Popolo di Dio", il potere del popolo, dei laici. C'era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c'era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell'Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell'insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell'idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell'applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient'altro, e così via.

Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

 

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domenica 17 febbraio 2013

QUANDO, NEL SETTEMBRE 2011, SEPPI DELLE DIMISSIONI. E PERCHE’ OGGI….. QUELLE INQUIETANTI PROFEZIE – lo Straniero

QUANDO, NEL SETTEMBRE 2011, SEPPI DELLE DIMISSIONI. E PERCHE' OGGI….. QUELLE INQUIETANTI PROFEZIE

Le dimissioni di Benedetto XVI non sono soltanto una notizia esplosiva, ma un evento epocale, senza precedenti moderni (si può citare il caso di Celestino V, settecento anni fa, ma fu una vicenda diversissima in tutt'altro contesto). 
Quello che accade davanti ai nostri occhi è un avvenimento che, per la sua stessa natura planetaria e spirituale, fa impallidire tutte le altre notizie di cronaca di questi giorni e certamente non ha alcun legame con esse (a cominciare dalle elezioni italiane).
Ieri Ezio Mauro, nella riunione di redazione di "Repubblica" trasmessa sul sito e che ovviamente è stata dedicata al pontefice, ha rivelato che Benedetto XVI è arrivato a questa decisione "dopo una lunga riflessione. Stamattina" ha aggiunto Mauro "ci hanno detto che la decisione l'ha presa da tempo e comunque l'ha tenuta segreta".
In effetti la decisione risale almeno all'estate 2011 e non è più una notizia segreta dal 25 settembre 2011, quando, su questo giornale, io la portai alla luce, avendola saputa da diverse fonti, tutte credibili e indipendenti l'una dalle altre. In quell'occasione scrissi che il passaggio di mano era stato pensato, da Ratzinger, per il compimento dei suoi 85 anni, cioè nella primavera del 2012.
Sennonché due mesi dopo il mio articolo, nell'autunno del 2011, cominciò a scoppiare il caso Vatileaks e fu subito evidente che – finché non si fosse chiusa quella vicenda – il Santo Padre non avrebbe dato corso alla sua decisione.
Infatti nel libro intervista di qualche anno fa, "Luce del mondo", con Peter Seewald, analizzando la cosa in via teorica, aveva spiegato che quando la Chiesa si trova nel mezzo ad una tempesta un Papa non può dimettersi.
Per questo l'11 marzo 2012, a un mese dall'85° compleanno del Pontefice (che è il 16 aprile), io scrissi su queste colonne: "va detto che la tempesta che ha travolto in questi mesi la Curia vaticana, in particolare la Segreteria di stato, allontana l'ipotesi di dimissioni del papa, il quale ha sempre precisato che esse sono da escludere quando la Chiesa è in grandi difficoltà e perciò potrebbero sembrare una fuga dalle responsabilità".
Lo svolgimento dei fatti successivi conferma questa ricostruzione. Perché infine le dimissioni del Papa arrivano puntualmente un mese dopo la definitiva chiusura della vicenda Vatileaks, con la grazia concessa al maggiordomo Paolo Gabriele.
Segno che tali dimissioni effettivamente erano già state decise nell'estate 2011.

Ecco le ragioni addotte ieri dal Papa: "sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino".
Con la sua abituale limpidezza il Papa ha detto la semplice verità e ha fatto la scelta che ritiene migliore per il bene della Chiesa, fra l'altro una scelta di umiltà, che è un tratto importante della sua umanità e della sua fede.
Noi tuttavia possiamo e dobbiamo osservare che quasi tutti i papi precedenti sono invecchiati e sono rimasti in carica con forze ridotte, governando attraverso i loro collaboratori.

Si può dunque ipotizzare che Benedetto XVI non abbia ritenuto di fare questa scelta perché non giudica di avere collaboratori all'altezza di un tale compito (con le sue dimissioni tutte le cariche di Curia sono azzerate).
Di certo si può dire che Benedetto XVI è stato un grande pontefice e che il suo pontificato è stato – almeno in parte – azzoppato da una Curia non all'altezza, ma anche dalla scarsa rispondenza al Papa di parte dell'episcopato.
Joseph Ratzinger, che si conferma un papa straordinario anche con questa uscita di scena, ha portato la croce del ministero petrino certamente soffrendo molto e dando tutto se stesso (non gli sono mancate né le incomprensioni, né il dileggio).

E' stata una pena vedere come il suo splendido magistero è rimasto spesso inascoltato.
Quando pubblicai il mio scoop scrissi che mi auguravo di essere smentito dai fatti e auspicavo che noi cattolici pregassimo perché Dio ci conservasse a lungo questo grande Papa.
Purtroppo molti credenti invece di ascoltare questo mio appello alla preghiera si scatenarono ad attaccare me, come se dare la notizia del Papa che stava pensando alle dimissioni fosse lesa maestà. Una reazione bigotta che segnalava un certo diffuso clericalismo.
Benedetto XVI – con la sua continua apologia della coscienza e della ragione – è fra i pochi con una mentalità non clericale.

Basti ricordare che non ha esitato a chiamare col loro nome tutte le piaghe della Chiesa e a denunciarle come mai prima era stato fatto.
Nella sua ammirevole libertà morale non esitò nemmeno a smentire qualche suo stretto collaboratore sul "segreto di Fatima". Accadde nel 2010, quando decise un repentino pellegrinaggio al santuario portoghese e là dichiarò:

"Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa… Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima […] Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità".
Un'espressione che certamente fa pensare (il centenario delle apparizioni di Fatima è il 2017), anche in riferimento ai famosi "dieci segreti" di Medjugorje.

D'altra parte lo stesso annuncio delle dimissioni è arrivato in una data gloriosamente mariana, l'11 febbraio ricorrenza (e festa liturgica) delle apparizioni della Vergine a Lourdes.
E' facile prevedere che ora si scateneranno anche dietrologie fantasiose, si evocheranno i detti di Malachia, la monaca di Dresda e quant'altro.

Ma resta il fatto che il Papa, con la pesantezza epocale della decisione che ha assunto, pone tutta la Chiesa davanti alla gravità dei tempi che viviamo.
Gravità che la Madonna ha dolorosamente sottolineato in tutte le sue apparizioni moderne, da La Salette, a Lourdes, da Fatima a Medjugorje (passando per la misteriosa e miracolosa lacrimazione della Madonnina di Civitavecchia).
C'è solo da augurarsi che invece non si riferisca a questo nostro amato Papa, ciò che è stato attribuito a un suo predecessore, Pio X, che la Chiesa ha proclamato santo.

E' un episodio che da qualche mese viene diffuso fra alcuni ambienti cattolici e anche in Curia.
Risulterebbe che Pio X, nel 1909, abbia avuto durante un'udienza una visione che lo sconvolse: "Ciò che ho veduto è terribile! Sarò io o un mio successore? Ho visto il Papa fuggire dal Vaticano camminando tra i cadaveri dei suoi preti. Si rifugerà da qualche parte, in incognito, e dopo una breve pausa morrà di morte violenta".
Sembra che sia tornato su quella visione nel 1914, in punto di morte. Ancora lucido riferì di nuovo il contenuto di quella visione e commentò: "Il rispetto di Dio è scomparso dai cuori. Si cerca di cancellare perfino il suo ricordo".

Da tempo circola questa "profezia" anche perché si dice che Pio X avrebbe altresì dichiarato che si trattava di "uno dei miei successori con il mio stesso nome".
Il nome di Pio X era Giuseppe Sarto. Giuseppe dunque. Joseph. Mi auguro vivamente che non sia una profezia autentica o da riferirsi ad oggi.

Ma la sua diffusione segnala quanto il pontificato di Benedetto XVI – come quello del predecessore – sia circondato da inquietudini.
Del resto fu lui stesso a inaugurarlo chiedendo le preghiere dei fedeli per non fuggire davanti ai lupi. Il Papa non è fuggito.

Ha sofferto e ha svolto la sua missione finché ha potuto e oggi chiede alla Chiesa un successore che abbia le forze per assumere questo pesante ministero.
D'altra parte è evidente a tutti che da trecento anni il papato è tornato ad essere un luogo di martirio bianco, come nei primi secoli esponeva al sicuro martirio di sangue.
Infatti i tempi moderni si sono aperti con un altro evento mistico accaduto a papa Leone XIII, il papa della "questione sociale" e della "Rerum novarum". Il 13 ottobre 1884 (il 13 ottobre peraltro è il giorno del miracolo del sole a Fatima) il pontefice ebbe una visione durante la celebrazione eucaristica.
Ne fu scioccato e sconvolto. Il pontefice spiegò che riguardava il futuro della Chiesa. Rivelò che Satana nei cento anni successivi avrebbe raggiunto l'apice del suo potere e che avrebbe fatto di tutto per distruggere la Chiesa.

Pare che abbia visto anche la Basilica di San Pietro assalita dai demoni che la facevano tremare.
Fatto sta che papa Leone si raccolse subito in preghiera e scrisse quella meravigliosa preghiera a San Michele Arcangelo, vincitore di Satana e protettore della Chiesa, che da allora fu recitata in tutte le chiese, alla fine di ogni Messa.
Quella preghiera fu abolita con la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, la riforma liturgica che Benedetto XVI ha tanto cercato di ridisegnare.

Mai come oggi la Chiesa avrebbe bisogno di quella preghiera di protezione a San Michele Arcangelo.

Antonio Socci
Da "Libero", 12 febbraio 2013

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GRANDI MANOVRE DEL CONCLAVE. IL PAPA TEME I MEDIA (LA TRISTE LEZIONE DEGLI ANNI DEL CONCILIO) – lo Straniero

GRANDI MANOVRE DEL CONCLAVE. IL PAPA TEME I MEDIA (LA TRISTE LEZIONE DEGLI ANNI DEL CONCILIO)

E' possibile che Benedetto XVI tema l'interferenza dei mass media sul prossimo Conclave? Vuol mettere in guardia la Chiesa e specialmente i cardinali dal rischio che siano questi pervasivi strumenti a influenzarli nelle scelte decisive che devono fare?

La domanda sorge considerando gli straordinari interventi che in queste ore sta ci regala Benedetto XVI quasi a voler preparare spiritualmente i porporati alla scelta migliore.

Mi riferisco in particolare alla sorprendente conversazione di giovedì scorso con i parroci romani, durante la quale ha denunciato, pur col suo stile mite, gli effetti devastanti che i media hanno prodotto al tempo del Concilio sulla Chiesa.

 

IL PRECEDENTE

 

Rileggiamo le sue parole:

"Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c'era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c'era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri.

E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all'interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l'intellectus, (…) il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all'interno della fede, ma all'interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un'ermeneutica diversa.

Era un'ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo".

Il Papa ha pure ricordato quali erano (e sono) i caposaldi ideologici dei media:

"C'erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola 'Popolo di Dio', il potere del popolo, dei laici (…). Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.

E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana (…).

Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell'insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell'idea del Concilio", ha aggiunto il Pontefice "sono state virulente nella prassi dell'applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede.

E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient'altro, e così via".

Ed ecco il bilancio tragico che il Papa ha tirato:

"Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale".

Naturalmente il Pontefice ha concluso proclamando il fallimento del "Concilio dei media" e ha sottolineato che "la vera forza" e il "vero rinnovamento della Chiesa" si trovano nei testi del Concilio autentico. Perciò ha incitato a non scoraggiarsi: "insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore!"

Tuttavia fa impressione quella diagnosi ("tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata").

 

MAGISTERO PARALLELO

 

Il discorso del Papa ricorda precedenti analisi di grandi personalità cattoliche, come il cardinale De Lubac che parlava di "magistero parallelo", a proposito di certi teologi e intellettuali.

O la famosa pagina di monsignor Luigi Maria Carli, secondo il quale al Concilio si è poi accompagnata "l'attività del cosiddetto 'paraconcilio', cioè di quell'ambiente di persone e di idee che, dopo aver cercato di influire sul Concilio mentre esso si svolgeva, è rimasto in piedi anche a Concilio finito, ingrandendosi e direi quasi istituzionalizzandosi.

Questo paraconcilio, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con le sue soddisfazioni e le sue insoddisfazioni, con i suoi propositi e i suoi spropositi" concludeva Carli "è quello che anima la crisi attuale e contrappone la sua opera alla serena fruttificazione delle idee seminate dal Concilio. Il paraconcilio, pretendendo di essere l'autentica vestale dello spirito del Concilio, deve necessariamente abusare dei testi conciliari. Ma di quali mai santissime cose l'uomo non è capace di abusare?".

E' facile riconoscere in questo identikit l'intellettualismo  progressista che imperversa sui media. Ma rispetto alle denunce di De Lubac e Carli, il discorso di Benedetto XVI, giovedì scorso, ha sottolineato soprattutto l'azione perniciosa dei media, gli stessi che potrebbero interferire nelle scelte del prossimo Conclave.

 

CHI ELEGGE IL PAPA?

 

Benedetto XVI dunque cerca di difendere la Chiesa Cattolica dalla "chiesa catodica". Ma come si può temere una simile "interferenza", obietterà qualcuno, se i credenti sostengono che è lo Spirito Santo a eleggere i Successori di Pietro?

Diversamente da quanto molti pensano (e scrivono) a eleggere il Papa, per la dottrina della Chiesa, non è affatto (automaticamente) lo Spirito Santo, ma sono gli uomini, vestiti di porpora, che si trovano riuniti nella Cappella Sistina.

Papa Benedetto lo sa bene: lo Spirito Santo, che viene invocato in Conclave, dà la sua ispirazione, ma poi i prelati sono liberi di ascoltarlo o invece di far prevalere altri loro interessi. Per questo San Vincenzo di Lérins diceva che "Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge".

Poi, una volta eletto regolarmente, qualunque Papa, per la dottrina cattolica, riceve l'assistenza straordinaria dello Spirito Santo. Dio saprà scrivere diritto anche su righe storte.

Ma gli errori degli uomini di Chiesa e le resistenze all'ispirazione divina, anche nella scelta dei pontefici, provocano comunque guai immensi, tragedie e sofferenze, per la Chiesa e per il mondo.

Come appare chiaro dalla storia della Chiesa stessa e da alcuni pontificati che ben difficilmente si possono considerare "decisi" dallo Spirito Santo.

Non a caso un grande principe della Chiesa (e valentissimo teologo) come il cardinale Siri, proprio nell'omelia dei novendiali per la morte di Paolo VI, nel 1978, rivolgendosi ai cardinali elettori, che presto si sarebbero riuniti in Conclave, disse: "mi pare doveroso che io mi rivolga ai Venerati Confratelli del Sacro Collegio e ricordi loro come il compito al quale ci accingiamo non sarebbe decorosamente accolto dicendo: 'ci pensa lo Spirito Santo!'. Ed abbandonandoci senza lavoro e senza sofferenza al primo impulso, alla irragionevole suggestione".

Come le facili suggestioni mediatiche. Colpisce e commuove rileggere adesso quella straordinaria omelia del cardinal Ratzinger alla Messa "Pro eligendo romano pontefice" del 18 aprile 2005, la stessa in cui denunciò la "dittatura del relativismo" che è il grande dramma di oggi e che suscitò il dissenso di tanti media.

Il suo pontificato sta in queste parole:

"l'amore, l'amicizia di Dio" disse Ratzinger "ci è stata data perché arrivi anche agli altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno.

L'unica cosa, che rimane in eterno, è l'anima umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l'amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del Signore.

Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio".

 

Antonio Socci

Da "Libero", 16 febbraio 2013

Vedi Facebook: "Antonio Socci pagina ufficiale"



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Corigliano: la vittoria di Benedetto XVI | Tempi.it

La vittoria del Pastore di Roma sull'onda di morte della nostra epoca

Caro, carissimo Papa Ratzinger. Vorrei testimoniare con due righe l'affetto che ho per lui.

Negli anni Ottanta feci la grande scoperta del suo libro Introduzione al cristianesimo: un libro che con dolcezza, profondità, cultura spiegava il mistero dell'amore di Dio in termini comprensibili per l'uomo moderno. Quel libro mi entusiasmò talmente che confezionai un video che invitasse a leggerlo: un video di un'ora che ora ho messo su Youtube (col titolo Illustrazione del credo).

Il cristianesimo ha il punto di maggior contraddizione proprio in Occidente. La ribellione protestante, nella sua veste secolarizzata e illuminista tenta di soffocare il messaggio di Gesù e il Papa come un campione affronta quest'onda di morte che porta con sé la dissoluzione della famiglia, degli affetti e soprattutto della fede. Le encicliche, i suoi libri su Gesù e i vigorosi discorsi di Parigi, di Berlino e di Londra sono pietre miliari con cui il Pastore di Roma ha guidato il suo gregge.

La civiltà europea nasce da san Benedetto (non a caso il Papa ne ha scelto il nome) – ha ricordato a Parigi – le leggi dello Stato devono rispettare la natura dell'uomo – discorso al Bundestag –, la dottrina sociale della Chiesa è il criterio a cui ispirare il governo della società – discorso di Londra. Un Papa umile che non s'intimidisce di fronte a nessuno: è il vero vincente dell'epoca che è cominciata con Giovanni Paolo II, il cui pontificato s'è intrecciato ed è continuato con Papa Benedetto. Grazie caro Papa.


Categorie: Chiesa
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Formigoni e intercettazioni sui giornali | Tempi.it

Cosa racconta meglio la Lombardia: 122 mila pagine e il buco della serratura o 18 anni di storia?

I giornali che mettono in pagina le intercettazioni che nessuna attinenza hanno con le indagini ma servono a mostrare il volto meschino e fragile che ha ogni persona messa sotto torchio con la minaccia di essere sbattuta in galera e buttare via le chiavi, perché lo fanno?

Perché grufolano nella cacchetta e pubblicano chiacchiere al telefono di amici che ti accoltellano appena volti loro le spalle o che se la fanno nei pantaloni appena vedono il pubblico ministero, e niente ricordano delle proprie responsabilità, libere scelte, compromessi accettati per stare in posizioni burocratiche pagate profumatamente?

E perché il bravo cronista inzuppa il biscotto nelle chiacchiere in cui ciascuno può riflettere pezzi della propria stessa meschinità, miserie, invidie, rivalse, gelosie, che credevi aver raccontato in privato e poi te le vedi sbattute in faccia, crogiolate con la cacchetta che il bravo cronista ti fa annusare come il più sofisticato verduraio ti farebbe annusare una rosa prendendola da un peduncolo con le pinzette di un chirurgo?

Che peccato. Vorremmo tanto avere anche noi a disposizione i brogliacci della vita privata dei signori che conducono questo gioco al massacro. Anche a noi piacerebbe sbattere in faccia ai signori delle mani pulite le intercettazioni della loro buona e irreprensibile, in parole e opere, vita privata; le intercettazioni di conversazioni tra i direttori di grandi giornali e i loro editori che trafficano in sanità, tra capi procuratori e giornalistoni, tra topi di archivio giudiziario e topi della cronaca giudiziaria, tra poliziotti e becchini, tra magistrati e amanti, tra politici e giornalisti lottizzati… Purtroppo tutte queste intercettazioni non le abbiamo e perciò non possiamo servirvele, farvele compulsare, odorare come fanno loro con il Roberto Formigoni&son che devono ammazzare. E ammazzare solo perché il 24-25 febbraio devono portare in cima al Pirellone e in cima al Parlamentone i loro cavalli.

E dire che devono cancellare tutto, ma proprio tutto, di quello che ha fatto il massacrato Formigoni. È sotto gli occhi di tutti? Sì. Ma queste indagini qui e questo gioco qui sono fatti apposta per scartavetrare 18 anni di storia e appenderle a quelle 122mila (122mila!) pagine di teorema giudiziario. Un teorema che prova a dimostrare l'assurdo: e cioè che un sistema efficiente e certificato di buona sanità (in Italia si crepa di malasanità); un sistema per cui ogni anno centinaia di migliaia di pazienti migrano da tutta Italia per venire qui a curarsi; un sistema che di eguali ce n'è solo in un paio di paesi al mondo (Stati Uniti e Francia); ecco quel sistema lì è frutto di un'associazione a delinquere.

E va bene. Ma cosa ne guadagnerà la collettività se la luce di cosa sono stati 18 anni di Lombardia sarà oscurata dalle (male che vada, ma proprio male) debolezze private di un grande Governatore e dalla dubbia congruità dei profitti fatti da qualche avventuriero? E cosa sarà mai, male che vada, ma proprio male, la condanna di una mezza dozzina di supposti delinquenti, davanti al bene fatto dalle giunte Pdl-Lega a dieci milioni di lombardi e ai milioni di italiani che in questi vent'anni sono venuti a curarsi in Lombardia?

Non lo dobbiamo ripetere fino alla noia noi che siamo amici di Formigoni. Bastano gli occhi e, per chi non ce li ha, basta informarsi. Se uno non è un malato mentale e non ha la bava alla bocca, si informi, analizzi i dati, faccia comparazioni con il resto d'Italia. È già tutto scritto e tutto analizzato. Come la Lombardia non ce n'è. Non solo nella sanità. Ma in tutti gli altri comparti. Per cui, potete scaricare tutti gli insulti che volete, ma è così. Condannassero all'ergastolo Formigoni, nessuno potrà cancellare il bene fatto dalle sue amministrazioni.

Ma insomma, che peccato che per provare a far vincere Umberto Ambrosoli – quello che per il Corriere della Sera rappresenta un consigliere di amministrazione del proprio editore e per La Repubblica l'alleato di Pier Luigi Bersani – si debbano massacrare le persone. Che peccato. E quanto sono lontani i tempi in cui ci si poteva dividere e attaccarsi onestamente, lealmente, combattendo tra comunisti e democristiani, e magari mettersi le mani addosso, e magari ammazzarsi, ma non disumanizzando il volto dell'avversario, rendendolo odioso, miserabile, viscido come un verme impiccato all'amo degli origliamenti dei pm. Attaccarlo e calpestarlo fino a negare che sia mai esistita qualcosa che tutti, in giro per il mondo, chiamavano "modello Lombardia". Un vero peccato. Perché tutto ciò significa che se per caso Bobo Maroni non ce la fa, in Lombardia ce la fanno loro. Quelli che coniugano senza vergogna l'euforia del loro potere con l'ebbrezza per il massacro dei loro rari e deboli avversari.

@LuigiAmicone
Categorie: Politica
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sabato 16 febbraio 2013

Caffarra: orientamenti per il voto | Tempi.it

 Grande semplicità e chiarezza del cardinale!

Caffarra: "Cari fedeli, ecco quali sono gli orientamento per il voto"

Nella presente circostanza che, attraverso l'imminente chiamata all'espressione del voto, coinvolge il futuro civile del Paese, l'Arcivescovo S. Em. il Card. Carlo Caffarra offre questa riflessione e criteri di orientamento.

Cari fedeli, solo dopo lunga riflessione ho deciso di dirvi parole di orientamento per il prossimo appuntamento elettorale. Di parole ne avete sentite tante in queste settimane; di promesse ne sono state fatte molte. Io non ho nessuna promessa da farvi. Spero solo che le mie parole non siano confuse con altre, perché non nascono da preoccupazioni politiche.

E' come pastore della Chiesa che vi parlo.

1. La vicenda culturale dell'Occidente è giunta al suo capolinea: una grande promessa largamente non mantenuta.

I fondamenti sui quali è stata costruita vacillano, perché il paradigma antropologico secondo cui ha voluto coniugare i grandi vissuti umani [per esempio l'organizzazione del lavoro, il sistema educativo, il matrimonio e la famiglia …] è fallito, e ci ha portato dove oggi ci troviamo.

Non è più questione di restaurare un edificio gravemente leso. E' un nuovo edificio ciò di cui abbiamo bisogno. Non sarà mai perdonato ai cristiani di continuare a essere culturalmente irrilevanti.

2. E' necessario avere ben chiaro quali sono le linee architettoniche del nuovo edificio; e quindi anche quale profilo intendiamo dare alla nostra comunità nazionale. Ve lo indico, alla luce del grande Magistero di Benedetto XVI.

٭ La vita di ogni persona umana, dal concepimento alla sua morte naturale, è un bene intangibile di cui nessuno può disporre. Nessuna persona può essere considerata un peso di cui potersi disfare, oppure un oggetto – ottenuto mediante procedimenti tecnici [procreazione artificiale] – il cui possesso è un'esigenza della propria felicità.

٭ La dicotomia Stato–Individuo è falsa perché astratta. Non esiste l'individuo, ma la persona che fin dalla nascita si trova dentro relazioni che la definiscono. Esiste pertanto una società civile che deve essere riconosciuta.

Lo Stato è un bene umano fondamentale, purché rispetti i suoi confini: troppo Stato e niente Stato sono ugualmente e gravemente dannosi.

٭ Nessuna civiltà, nessuna comunità nazionale fiorisce se non viene riconosciuto al matrimonio e alla famiglia la loro incomparabile dignità, necessità e funzione. Incomparabile significa che nel loro genere non hanno uguali. Equipararle a realtà che sono naturalmente diverse, non significa allargare i diritti, ma istituzionalizzare il falso. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l'essenza stessa dell'uomo» [Platone].

٭ Il sistema economico deve avere come priorità il lavoro: l'accesso al e il mantenimento del medesimo. Esso non può essere considerato una semplice variabile del sistema.

Il mercato, bene umano fondamentale, deve configurarsi sempre più come cooperazione per il mutuo vantaggio e non semplicemente come competizione di individui privi di legami comunitari.

٭ Tutto quanto detto sopra è irrealizzabile senza libertà di educazione, che esige un vero pluralismo dell'offerta scolastica pubblica, statale e non statale, pluralismo che consenta alle famiglie una reale possibilità di scelta.

3. Non possiamo astenerci dal prendere posizione su tali questioni anche mediante lo strumento democratico fondamentale del voto. La scelta sia guidata dai criteri sopraindicati, che sintetizzo: rispetto assoluto di ogni vita umana; costruzione di un rapporto giusto fra Stato, società civile, persona; salvaguardia dell'incomparabilità del matrimonio – famiglia e loro promozione; priorità del lavoro in un mercato non di competizione, ma di mutuo vantaggio; affermazione di una vera libertà di educazione.

Se con giudizio maturo riteniamo che nessun programma politico rispetti tutti e singoli i suddetti beni umani, diamo la nostra preferenza a chi secondo coscienza riteniamo meno lontano da essi, considerati nel loro insieme e secondo la loro oggettiva gerarchia.

4. Raccomando ai sacerdoti e ai diaconi permanenti di rimanere completamente fuori dal pubblico dibattito partitico, come richiesto dalla natura stessa del ministero sacro e da precise norme canoniche.

5.  Invochiamo infine con perseveranza e fede i santi patroni d'Italia Francesco e Caterina da Siena affinché, per loro intercessione, la nostra preghiera per il Paese trovi ascolto presso il Padre nostro che 'ci libera dal male'.

Bologna, 16 febbraio 2013

+ Carlo Card. Caffarra

Arcivescovo


Categorie: Chiesa
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martedì 12 febbraio 2013

IL BLOG DEI CAPITANI CORAGGIOSI: Chiediamo a tutti di pregare il Santo Rosario ogni giorno per l'elezione del Successore di Pietro

Chiediamo a tutti di pregare il Santo Rosario ogni giorno per l'elezione del Successore di Pietro

Carissimi Amici,

il momento che sta attraversando la Chiesa Cattolica con la rinuncia di Papa Benedetto XVI è davvero intenso e grave.
Quello che chiediamo a tutti è di unirsi nella preghiera del Santo Rosario quotidiano da qui sino all'elezione del nuovo Pontefice.

Le porte degl'inferi non prevarranno, noi cattolici dobbiamo fare ciascuno la propria parte nella battaglia, ed ora è il momento di pregare, ora combattere significa pregare.

Da oggi quindi iniziamo il Santo Rosario quotidiano per l'elezione del nuovo Pontefice.



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La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Tre certezze davanti allo smarrimento

La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Tre certezze davanti allo smarrimento

È stata davvero una sorpresa per il momento in cui è arrivata. Anche alcuni dei suoi collaboratori più stretti erano all'oscuro di quanto Benedetto XVI avrebbe annunciato questa mattina, una notizia che ha sconvolto tutto il mondo cattolico. Ma non è esattamente un fulmine a ciel sereno perché della possibilità di sue dimissioni si parla da tempo, e nelle ultime settimane la voce in Vaticano si era fatta più insistente.

Si tratta di una decisione lungamente meditata, che Benedetto XVI teneva aperta come possibilità sin dalla sua elezione al soglio di Pietro. Già all'inizio del 2006, infatti, aveva chiesto un consulto a un gruppo ristretto di esperti a proposito della possibilità di dimissioni. Sebbene la procedura di dimissioni sia regolata dal Codice di diritto canonico, allora gli fu dato un parere negativo soprattutto pensando agli effetti sconvolgenti di un tale annuncio. E ancora, in alcune interviste, a domanda diretta non ha mai escluso la possibilità di dimissioni al verificarsi di certe condizioni.

Condizioni che evidentemente oggi Benedetto XVI ha ritenuto si siano verificate, e perciò «per il bene della Chiesa» sulla bilancia delle decisioni tali condizioni pesano più del disorientamento che tale notizia provoca tra i cattolici. Il Papa ha detto di non avere più le forze per «guidare con vigoria la barca di Pietro», che si trova a vivere un periodo che dire travagliato è poco, visti gli episodi anche eclatanti di disobbedienza al Magistero. E sicuramente ha pesato il fatto di vedere anche fra i suoi collaboratori atteggiamenti e scelte  che le sue forze non gli permettevano di correggere.

Ma in questo momento di smarrimento, alcune certezze ci devono guidare. Anzitutto la gratitudine per questo pontificato, che ha saputo parlare al cuore dei fedeli come nessuno aveva immaginato all'inizio. E testimonianza ne è l'afflusso senza precedenti alle catechesi del mercoledì. Nell'Angelus del 3 febbraio, parlando di Gesù che nella sinagoga di Nazareth con il discorso del "nessuno è profeta in patria" sfida la rabbia dei suoi concittadini, disse che il motivo dell'atteggiamento di Gesù sta nel fatto che non è venuto a cercare il consenso, ma a testimoniare la Verità. È una affermazione che ben definisce anche il pontificato di Benedetto XVI, e di questa testimonianza della Verità siamo grati, al punto che le dimissioni del Papa aumentano la nostra responsabilità personale nel fare lo stesso.

Il secondo aspetto è la certezza che a guidare la Chiesa è lo Spirito Santo. Non è una astratta consolazione in momenti in cui dal punto di vista umano le cose sembrano andare male. È, e deve essere, la certezza concreta che nasce dall'esperienza: lo Spirito Santo guida davvero la Chiesa, e allora le dimissioni di Benedetto XVI e l'elezione di un nuovo Papa sono provvidenziali anche se a noi può sfuggire il Disegno che ci sta dietro. Solo questa certezza ci può dare una serenità di fondo anche in un momento di forte smarrimento come questo.

Infine, è più che mai necessaria la nostra preghiera: per il Papa, perché continui fedelmente il suo servizio alla Chiesa, seppur in forme diverse; per la Chiesa, che possa essere sempre guidata in accordo con la volontà di Dio; per noi stessi, per chiedere al Signore il dono della fede, che Benedetto XVI ha posto al cuore del dramma del mondo contemporaneo. La vera crisi – ci ha detto in questi anni – è una crisi di fede, ed è per questo che ha indetto un Anno della Fede, che stiamo vivendo proprio ora. E allora, il modo migliore per rendere grazie a Dio del dono di questo Papa, è desiderare con tutto noi stessi e chiedere a Dio la grazia di aumentarci la fede, la grazia della conversione.


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La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Un passo indietro? No, passo avanti

La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Un passo indietro? No, passo avanti


Ogni parola del Papa, lo sappiamo bene, deve essere letta con attenzione, perché colui che parla e scrive è il Vicario di Cristo sulla Terra. Ma a maggior ragione quando lo scritto riguarda "una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa" quale quella presa da Benedetto XVI poche ore fa. Ogni riga e parola assume quindi un significato non solo giuridico, oppure programmatico o meramente biografico, bensì anche di ordine soprannaturale.

Leggiamo un passaggio dell'annuncio del Papa: "Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando". Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio e Ministro per la Cooperazione Internazionale e l'integrazione, intervistato a caldo dal Tg1 nell'edizione delle 13.30 ha interpretato questo passaggio  offrendo una chiave di lettura suggestiva. Il Papa aveva di fronte a sé due beni: la testimonianza nel martirio, come fece il suo predecessore Giovanni Paolo II e l'efficacia dell'azione pastorale. Il Pontefice ha scelto questa seconda strada.

Da una parte quindi la sofferenza, sia fisica che soprattutto morale e spirituale. Quest'ultima non è difficile intuire che è nata nel cuore di Benedetto XVI dal constatare che la barca di Pietro è sempre più piena d'acqua anche perché molti suoi occupanti provocano nello scafo continue falle. Una sofferenza sopportata e vivificata dalla preghiera e offerta come strumento di santificazione per tutta la Chiesa.

Dall'altra le opere e le parole, cioè la vita attiva, l'evangelizzazione, la concretezza dei progetti pastorali, i discorsi, le lettere, le encicliche e molto altro che la sofferenza impedisce di portare a termine. Da una parte una candela che si consuma nel dare luce sino alla fine, dall'altra la scelta pragmatica non di arrendersi agli anni che passano ma di passare il testimone per il bene maggiore della Chiesa.

Dobbiamo essere sinceri: nel cuore di ciascuno di noi almeno per un attimo c'è stata delusione, mista a costernazione, come se ci fossimo sentiti traditi da una scelta che a pelle sentiamo di minor pregio (come non pensare agli apostoli increduli e scandalizzati di sapere il loro Maestro morto in croce?). "Rinuncia" è infatti il termine che più hanno in bocca i commentatori, una parola che sa di sconfitta. Il Papa ha gettato la spugna ed ha vinto il mondo, ci viene quasi da dire. Meglio ha fatto Giovanni Paolo II che ha lottato sino alla fine ed è rimasto al suo posto – quel posto a cui è stato chiamato da Dio - fino alla morte.

Ma quando si tratta del Vicario di Cristo e quando, come in questo caso, si tratta del teologo Joseph Aloisius Ratzinger, i criteri di giudizio solo umani devono lasciare il posto a quelli di ordine trascendente, evitando di cedere a facili riduzionismi. Qui non abbiamo l'amministratore delegato di Eni che ha lasciato il posto per motivi di salute. Qui stiamo parlando del successore di Pietro che deve condurre gli uomini verso la salvezza. È dal Cielo che occorre guardare tutta questa vicenda.

Allora dato che lo stesso Pontefice ha sottolineato il fatto che la sua decisione non assomiglia ad un'agevole scorciatoia ma esito di reiterati esami di coscienza fatti al cospetto di Dio ("dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio") dobbiamo nutrire la certezza che la sua decisione è quella che Dio stesso gli ha indicato. Il criterio che Benedetto XVI ha seguito è l'unico valido da seguire non solo per decisioni di questo calibro ma per qualsiasi decisione di qualsiasi Papa: il maggior bene della Chiesa.

Il martirio, il consumarsi sino allo stremo è via obbligatoria solo se Dio lo chiede perché in quella circostanza e per quella persona è la via più efficace per contribuire al bene della Chiesa. Ma parimenti il passaggio di testimone. Cosa serve ora alla Chiesa? La testimonianza della sofferenza o le opere compiute da chi non è ancora intaccato in modo sensibile nella propria vigoria fisica e interiore? Chi meglio del Papa può rispondere a questo interrogativo? E Benedetto XVI ha dato la risposta che Dio gli ha ispirato nel cuore. Allora in questa prospettiva la scelta del Papa è stata la via indicata dalla Provvidenza, non un passo indietro ma un passo avanti nel misterioso cammino dell'economia della salvezza.

Un pontificato vissuto come la Via Crucis di Gesù, se vogliamo, è più facile da interpretare, più alla nostra portata da decifrare, perché richiama immediatamente un atto eroico, una identificazione confortante e quasi plastica con il Crocefisso. La via dell'umile nascondimento – "un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore" si definì il Papa appena eletto – del riconoscimento che oggi la barca di Pietro ha bisogno di vigorosi rematori comporta per noi un maggior sforzo per quel muscolo spirituale che è la fede, proprio quella virtù teologale che il Papa ci ha chiesto di meditare e approfondire quest'anno.

In questo senso la decisione del Sommo Pontefice ci obbliga a privilegiare la prospettiva teologica – e Ratinger è teologo - ed in particolare quella escatologica orientata alla salvezza eterna, prospettiva più ardua da assumere. In quest'angolo di visuale ultramondano forse si nasconde anche l'indicazione che dobbiamo assegnare valore più che alla persona di Joseph Ratzinger al munus, all'ufficio di Pontefice che non muore mai perché passa da uomo a uomo, al di là delle contingenze, delle sofferenze e degli acciacchi. E dunque per paradosso la rinuncia di Benedetto XVI fa risplendere ancor di più l'importanza del ruolo di Pontefice, più che mettere l'accento sull'uomo che lo Spirito Santo ha scelto perché temporaneamente assuma questo altissimo incarico. Un ufficio che richiama quella frase della Bibbia piena di mistero: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedec».

La scelta di Benedetto XVI allora rimanda in modo trascendente alla perennità del ministero petrino, ministero che rimarrà fino alla fine dei tempi perché Cristo è eternamente vivo e dunque altrettanto vivo deve essere l'ufficio di Vicario. Ma nello stesso tempo la decisione del Papa ci fa riflettere sulla caducità dell'essere umano, lui sì stretto d'assedio da infiniti limiti. 




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lunedì 11 febbraio 2013

ELEZIONI LOMBARDIA/ Melazzini: vi spiego perché mi candido col Pdl


ELEZIONI LOMBARDIA/ Melazzini: vi spiego perché mi candido col Pdl

Egregio direttore,

sto seguendo con molto interesse il dibattito che Ilsussidiario.net sta ospitando sulle elezioni regionali in Lombardia del 24 e 25 febbraio, con le prese di posizione di alcuni dei candidati dei diversi schieramenti in campo. Vorrei dare un piccolo contributo alla riflessione spiegando perché un cittadino comune e una persona normale come me, che fino ad oggi non aveva mai fatto politica attiva, abbia deciso a 54 anni di candidarsi per la prima volta, cercando di dare il proprio contributo al bene comune. Ho trascorso quasi trent'anni prendendomi cura delle persone malate (prima come medico condotto, poi come oncologo), mi sono impegnato come volontario nel mondo del sociale e del no profit e, negli ultimi anni, sono stato al servizio delle istituzioni, prima come dirigente, poi come assessore alla Sanità di Regione Lombardia. Il mio desiderio è di mettere tutte queste esperienze a disposizione delle persone comuni, nelle convinzione profonda che una politica migliore, fatta innanzitutto di ascolto, di coinvolgimento concreto dei cittadini e di condivisione vera delle scelte, esista e possa essere praticata. Mi candido perché desidero stimolare tutti quelli che avrò l'occasione di incontrare in queste settimane a credere che una buona politica, nonostante tutto, ci sia ancora.

Alcune persone mi hanno chiesto il motivo per cui ho deciso di candidarmi con il Pdl. Le ragioni sono due. Innanzitutto sono convinto che questo partito rappresenti e proponga  meglio di tutti gli altri il modello di società in cui io credo che è quello basato sul protagonismo delle singole persone nella vita sociale e sulla libertà di scelta e di iniziativa in ogni ambito, da quello sociale a quello economico. La seconda ragione è che non voglio che si disperda quanto di buono è stato fato fino ad ora in Regione Lombardia e credo che la vittoria dell'alleanza di cui fa parte il Pdl possa garantire questo. Parlo in particolare del sistema sanitario – che è tra i migliori in Europa-, del sistema di welfare e di istruzione (con la Dote e il buono scuole), dello sviluppo economico, infrastrutturale, agricolo e turistico. C'è tanto di buono in Lombardia e ci sono risorse incredibili che meritano di essere tutelate e valorizzate.