venerdì 31 luglio 2009

Fisichella sulla Pillola Abortiva

Mi fa pensare a come la cultura che muove la maggioranza di quelli che in seno all' Aifa hanno approvato tale provvedimento sia povera di ogni entusiasmo , speranz e vita.. sì la Vita!!!




La pillola Ru486
Quando si banalizza la vita

di Rino FisichellaArcivescovo presidentedella Pontificia Accademia per la Vita
C'è una triste tendenza che si sta imponendo poco alla volta in alcuni frammenti della cultura contemporanea: la banalizzazione. Dalla vita alla morte tutto sembra sottoposto a un mero processo semplificativo che tende a rinchiudere ogni cosa in un affare privato senza alcun riferimento agli altri. In questo modo, però, la coscienza si assopisce e diventa progressivamente incapace di giudizio serio e veritiero. L'applicazione della pillola Ru486 a tecnica abortiva è stata una via di ripiego per recuperare i capitali investiti dopo la verifica del fallimento per la sperimentazione che era stata prefissata. Già questo "banale" particolare la dice lunga sullo scopo di alcune ricerche che vengono fatte nei laboratori. Dimenticare che la scienza e la ricerca tecnologica devono avere come loro primo scopo quello di promuovere la vita e la sua qualità comporta un inevitabile slittamento con la conseguenza di porre al primo posto la sete di guadagno e non la salvaguardia della natura. I proclami sulla neutralità della scienza rimbombano in alcuni momenti particolari con il solo scopo di accreditare un prodotto piuttosto che per ricordare il valore fondamentale che la ricerca possiede. Non si può divenire complici di queste situazioni, denunciate con coraggio da Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Caritas in veritate, quando in gioco vi è la vita umana. Fermarsi alla sola analisi del rapporto costi e benefici per introdurre nel mercato la Ru486 è una posizione molto pilatesca sulla quale si dovrà riflettere per non cadere in altrettante forme di ipocrisia. Dovrà pur esserci un'autorità in grado di considerare i gravi rischi a cui le donne sono sottoposte nel momento in cui fanno ricorso a questo farmaco. Come ci si può sottrarre davanti al fatto che troppi casi di morte si sono verificati dopo l'assunzione di questo trattamento? Come non considerare gli aspetti etici che questa pillola comporta? Come trascurare l'impatto che avrà sulle giovani generazioni di ragazze che ricorreranno sempre più facilmente a questo uso? Gli interrogativi non sono affatto ovvi e obbligano a una risposta che si faccia carico di fornire argomenti per non rincorrere i soliti luoghi comuni. I sofismi, in questo caso, possono servire per una forma di personale soddisfazione, ma non convincono sulla drammaticità della situazione che deve essere affrontata. Inutile tergiversare. La Ru486 è una tecnica abortiva perché tende a sopprimere l'embrione da poco annidato nell'utero della madre. Che il ricorso all'uso di questa pillola sia meno traumatico che sottoporsi all'operazione è tutto da dimostrare. Il primo trauma nasce nel momento in cui non si vuole accettare la gravidanza ed è proprio qui che si deve intervenire per aiutare la donna a comprendere il valore della vita nascente. L'embrione non è un ammasso di cellule né un po' di muffa come qualcuno ha avuto l'ardire di definirlo; è vita umana vera e piena. Sopprimerla è una responsabilità che nessuno può permettersi di assumere senza conoscerne a fondo le conseguenze. L'assunzione della Ru486, quindi, non rende meno traumatico l'aborto, solo lo rinchiude ancora di più nella solitudine del privato della donna e lo prolunga nel tempo. È necessario ribadire che quanti vi fanno ricorso stanno compiendo un atto abortivo diretto e deliberato; devono sapere delle conseguenze canoniche a cui vanno incontro, ma soprattutto devono essere coscienti della gravità oggettiva del loro gesto. L'aborto è un male in sé perché sopprime una vita umana; questa vita anche se visibile solo attraverso la macchina possiede la stessa dignità riservata a ogni persona. Il rispetto dovuto verso l'embrione non può essere da meno di quello riservato a ognuno che cammina per la strada e chiede di essere accolto per ciò che è: una persona. La Chiesa non può mai assistere in maniera passiva a quanto avviene nella società. È chiamata a rendere sempre presente quell'annuncio di vita che le permette di essere nel corso dei secoli segno tangibile del rispetto per la dignità della persona. Il cammino che si deve percorrere diventa in alcuni momenti più faticoso perché è difficile far comprendere che la via da seguire per mantenere il primato dell'etica non è quella di fornire con molta tranquillità una pillola, ma piuttosto quella di formare le coscienze. Questo compito è arduo perché comporta non solo l'impegno in prima persona, ma la capacità di farsi ascoltare e di essere credibile. La nostra opposizione a ogni tecnica abortiva è per affermare ogni giorno il "sì" alla vita con quanto essa comporta. Ciò significa ribadire il nostro richiamo all'urgenza educativa perché i giovani comprendano l'importanza di fare propri dei valori che permangono come patrimonio di cultura e di identità personale. Non potremo mai abituarci alla bellezza che la vita comporta dal suo primo istante in cui fa sentire di essere presente nel grembo di una madre fino al momento estremo in cui dovrà lasciare questo mondo. Per questo motivo dinnanzi alla superficialità che spesso incombe permane immutato l'impegno per la formazione, così da cogliere giorno dopo giorno l'impegno per vivere la sessualità, l'affettività e l'amore con gioia e non con preoccupazione, ansia e angoscia.(©L'Osservatore Romano - 1 agosto 2009)

giovedì 23 luglio 2009

Tremonti sulla Caritas in Veritate

Uno stralcio dell' articolo sull'Osseravtore Romano circa l'incontro che il ministro ha avuto con mons. Fisichella sulla Caritas in Veritate .Una vera sintonia davvero!!

"Si sta arrivando a un nuovo Governo del mondo con spirito costruttivo e di pace". Non serve più "il vecchio sogno progressista dell'autosufficienza", piuttosto "un impegno per promuovere il bene comune della società". Negli ultimi vent'anni il mondo è cambiato radicalmente: si sono trasformate la sua struttura e la sua velocità. E non si può entrare e vivere in un contesto nuovo applicando le vecchie categorie. E la Caritas in veritate - ha sottolineato il ministro italiano - costituisce il primo, grande, organico documento di analisi e di riflessione sul nuovo mondo, che registra la cadute delle ideologie, intese come formule capaci di dominare l'esistente. Il ventennio appena trascorso, dunque, ha portato grandi cambiamenti. Si inizia con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, seguita, nel 1994, dal "mercatismo", inteso come onnipotenza del mercato, e dall'ingresso dell'Asia nell'Organizzazione mondiale del commercio nel 2001. Poi nel 2007 comincia la crisi che ora conosciamo bene. "Sono vent'anni - ha ribadito Tremonti - che postulano un coerente cambiamento dei paradigmi. Se il mondo è globale, il pensiero non può restare uguale.

lunedì 6 luglio 2009

Esperienza, non conoscenza intellettuale


Ecco dove ci ha portato il disprezzo per la Realtà. Bellissimo questo articolo di Pietro Pisarra!!!



Disprezzo per il reale e tramonto dell'esperienza pratica nella cultura contemporanea
Abbiamo perso i sensi

Nel libro Il giardino delle delizie (Roma, Editrice Ave, 2009, pagine 171, euro 11) l'autore affronta il tema della relazione tra sensi e spiritualità. Ne pubblichiamo un estratto.
di Pietro Pisarra
Abbiamo perso i sensi. Li abbiamo persi quasi senza accorgercene, quando tutto attorno a noi sembrava indicare il loro trionfo: culto del corpo, esaltazione della sensualità, in una frenesia di consumi, di viaggi e di esperienze parossistiche. Li abbiamo persi. E una generazione incerta tra "bio" e Dio, tra salutismo e spiritualità, trova rifugio nel sex appeal dell'inorganico, nell'eros virtuale, nei mondi immaginari abitati da fredde creature, androidi dallo sguardo vitreo e dal cuore di silicio. Dei sensi, quelli veri, restano soltanto pallide maschere, surrogati, scipite e indigeste misture. Inondati di immagini, storditi dal rumore, abbrutiti dalla volgarità e dalla banalità, anestetizzati da deodoranti e profumi, intontiti dai tranquillanti, ci siamo trovati, da un giorno all'altro, con una sfilza di protesi sofisticate (cellulari, palmari, microscopiche macchine fotografiche...) e sempre più insensibili: estranei al dolore del mondo e, tuttavia, pronti a versare una lacrima di compassione quando la morte si fa spettacolo. La perdita dei sensi, secondo Ivan Illich, è tra i drammi del nostro tempo. Perdita dei sensi, negazione della carne, disprezzo del corpo: frutti paradossali di una cultura che fa del lifting, del maquillage, valori supremi. E che più di ogni altra cosa ha orrore dell'invecchiamento e della morte; "entità astratte eccitanti hanno preso possesso delle anime e hanno ricoperto la percezione del mondo e di sé con un involucro di plastica" scrive Illich. Provate a parlare della risurrezione dei morti ai giovani di oggi, aggiunge il grande "archeologo della modernità": noterete il loro stupore. Ma la difficoltà non è tanto nella loro mancanza di fiducia, quanto nel carattere disincarnato delle loro percezioni; "in un mondo ostile alla morte, non ci si prepara più ad andare verso la morte, ma a morire senza andare da nessuna parte". Abbiamo perso i sensi, mentre l'orchestrina del Titanic eseguiva l'ultimo valzer sull'orlo dell'abisso. E con essi abbiamo smarrito non tanto una forma di conoscenza, una visione del mondo, bensì una parte di umanità. Sembra di assistere alla gioiosa apocalisse dipinta da Hieronymus Bosch nel Giardino delle delizie: il trionfo dei sensi si trasforma nel suo contrario e il paradiso in inferno, gli oggetti del piacere in strumenti di tortura. Con la lucidità dei mistici e dei visionari, Bosch mette in scena una sacra rappresentazione a rovescio: mostri grotteschi, improbabili chimere, incroci di uomini e di piante. Da una parte, l'umanità ancora nell'Eden; dall'altra, il mondo dopo la caduta. A sinistra, il paradiso, la fontana della vita, Adamo ed Eva, nell'esaltazione gioiosa e giocosa dei sensi, senza cupidigia, senza bramosia: un mondo non ancora corrotto dal peccato. A destra, l'inferno: un inferno musicale, con arpe e chitarroni, in cui vige - come nella Commedia di Dante - la legge del contrappasso. Nel pannello centrale del Giardino delle delizie, Bosch ha dipinto il paradisus voluptatis della tradizione teologica, l'hortus deliciarum celebrato dai mistici, ma a modo suo: introducendo particolari incongrui, motivi fantastici, scene bizzarre, e giocando col simbolismo dei frutti, con una grande fragola in primo piano, che forse allude alla lussuria. Così lontano dalla nostra sensibilità, così difficile da decifrare, quel trittico del XVI secolo sembra tuttavia parlarci di oggi: di un'esaltazione del corpo che sfocia nel suo contrario, nella triste parodia del desiderio e del piacere. Abbiamo perso i sensi, e anche le nostre liturgie si sono impoverite, sono diventate appuntamenti formali, abitudinari, di routine. "Poco per volta abbiamo visto le nostre chiese, queste vaste piste da ballo, riempirsi di ragionevoli inginocchiatoi; e ognuno è rimasto al suo posto, immobile, paralizzato nella sua noia mortale" scriveva ormai più di venticinque anni fa il domenicano Louis-Albert Lassus, rappresentante di un cristianesimo che aveva preso sul serio la provocazione di Nietzsche: "Potrò credere soltanto in un Dio che sappia danzare". In nome della ragionevolezza, dell'intelligenza, della purezza della fede, abbiamo accantonato riti antichi, gesti che raccontavano la tenerezza di Dio, in un vocabolario accessibile a tutti, abbiamo messo da parte il fuoco, le luci, i profumi, gli incensi. L'emotività, i sospiri, le svenevolezze sono stati giustamente banditi dalle nostre assemblee. Abbiamo guardato con sospetto alle lacrime, che pure per secoli, a pieno titolo, hanno trovato spazio nella storia della spiritualità. Ci siamo sbarazzati di inchini e genuflessioni. Con quale risultato? Noia. Vuoto. Deserto. E il paradosso è che i credenti in un Dio che si fa carne debbano cercare altrove, in altre esperienze religiose, una via all'unione tra corpo e spirito, sensi e fede: nello yoga, nelle pratiche di meditazione zen, nel sufismo. Non si tratta di rimpiangere il devozionismo di certo cattolicesimo post-tridentino (con i profumi di santità, l'insopportabile olezzo di gigli e di rose) né di dare nuovo spazio alla religione degli affetti o di approvare la svalutazione dell'intelligenza e della ricerca intellettuale implicita nella spiritualità di movimenti sedicenti "carismatici". Più urgente è tentare di rispondere alla domanda che la scrittrice Cristina Campo, in un bel saggio sui sensi spirituali, formulava così: "Chi resterà a testimoniare dell'immensa avventura, in un mondo che, confondendo, separando, opponendo o sovrapponendo corpo e spirito, li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita?". Se il dualismo platonico tra corpo e anima ha influenzato una parte consistente del cristianesimo, un'altra parte - non meno consistente - ha scelto l'altra strada, quella biblica, dell'unità della persona umana, fatta di anima e di corpo. Un'ambivalenza che già san Girolamo aveva illustrato con un curioso paragone: i nostri cinque sensi sono come le vergini della parabola evangelica (Matteo, 25, 1-13), vergini savie quando in essi prevale lo slancio verso il cielo, l'aspirazione al divino, vergini folli quando si lasciano guidare dalla "brama di corruzione terrena" senza "alcun appetito per la verità che illumina i cuori". (...) In linea con la teologia affettiva di san Bonaventura, Ignazio di Loyola, più di due secoli dopo, insiste sulla forza dei sensi, perché non è la conoscenza intellettuale che sazia l'anima, ma il fatto di sentire e di gustare ogni cosa interiormente, di farne una scoperta personale, un'esperienza intima. Perché nessuno può provare le stesse sensazioni, nello stesso modo, al mio posto. La ricerca di Dio coinvolge così tutto l'essere, è esperienza della persona nella sua interezza. Elemento chiave della spiritualità ignaziana è la cosiddetta "applicazione dei sensi", che consiste nel disporre le nostre facoltà corporee alla contemplazione del mistero. Come documenta il filosofo François Marty, Ignazio di Loyola contribuisce con il suo insegnamento a quella svolta nella storia della sensibilità che, tra Rinascimento ed età barocca, porterà alla rivalutazione del corpo come via alla conoscenza e aprirà la strada alla ricerca scientifica. Dall'antichità tardiva al Medioevo monastico, dal cristianesimo alessandrino alla mistica fiamminga, il linguaggio del corpo e dei sensi finisce così per designare, di metafora in metafora, le aspirazioni dell'anima, l'unione con Dio, la vera contemplazione. Il tema dei sensi spirituali diventa un leitmotiv della mistica cristiana. Il rimpianto di Agostino è di aver amato tardi questa "bellezza così antica e così nuova" (sero te amavi...) la sua consolazione è di averla alla fine trovata. E con essa, di aver ritrovato i sensi. Ritrovare i sensi: anche oggi è, questo, forse il migliore antidoto ai cattolicesimo light, decaffeinato, servito in molte chiese, o alla religione-camomilla di alcuni movimenti neo-spiritualisti. Ma ritrovare i sensi vuol dire sbarazzarsi di ogni moralismo, di ogni tentazione vetero o neo-gnostica, così come dei pericoli opposti: il sensualismo e il vitalismo, eresie del nostro tempo. "Degli spiriti senza corpo non saranno mai uomini spirituali" scriveva Ireneo di Lione in Adversus haereses (v, 8, 2), nel secondo secolo.
(©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)

mercoledì 1 luglio 2009

fede e ragione: nel giorno dei Santi Pietro e Paolo

Da Avvenire viene riportato quanto il papa ha detto il 29/6 sulla fede e ragione


29 Giugno 2009
Solenittà di Pietro e Poalo
Benedetto XVI: il vescovorenda «ragione» della fede
«Fa parte dei nostri doveri come pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo». Così il Papa durante la messa in S. Pietro per l’imposizione del Pallio a diversi arcivescovi di tutto il mondo, ha attualizzato il ministero episcopale e sacerdotale. Tre gli arcivescovi italiani che hanno ricevuto il Pallio: mons. Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, mons. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Siracusa, e mons. Domenico Umberto D'Ambrosio, arcivescovo di Lecce. Partendo dall’esortazione contenuta nella prima lettera di Pietro (3,15), a «rendere ragione della speranza che è in voi», Benedetto XVI ha affermato: «La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio». «Come pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede», l’esortazione papale, secondo il quale ai vescovi e ai sacerdoti spetta «il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande». «Tutto ciò, ha proseguito il Papa, partendo dalla consapevolezza che «la fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore». Ma «il pensare, così necessario, da solo, non basta», così come «parlare, da solo, non basta», ha precisato il Santo Padre, perché tutti noi, come i discepoli di Emmaus, «al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo». In altre parole, «la fede non deve rimanere teoria: deve essere vita», perché Solo dalla «certezza vissuta» dell’incontro con Cristo «deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile». «Il Curato d’Ars non era un grande pensatore», ha fatto notare il Papa riferendosi al santo cui è dedicato l’Anno Sacerdotale, che inizia oggi: «Ma egli ‘gustava’ il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne ‘uno che vede’. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono».