venerdì 25 dicembre 2015

"Non c'è posto per il dubbio; lasciamolo agli scettici che per interrogare solo la ragione non trovano mai la verità. Non c'è spazio per l'indifferenza, che domina nel cuore di chi non riesce a voler bene, perché ha paura di perdere qualcosa. Viene scacciata ogni tristezza, perché il bambino Gesù è il vero consolatore del cuore". http://it.radiovaticana.va/news/2015/12/25/messa_di_natale_francesco_nascita_gesù_cambia_il_mondo/1196797

domenica 7 giugno 2015

Viaggio Apostolico a Sarajevo: Santa Messa nello Stadio Koševo (6 giugno 2015)


Viaggio Apostolico a Sarajevo: Santa Messa nello Stadio Koševo (6 giugno 2015)

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A SARAJEVO (BOSNIA ED ERZEGOVINA)

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Stadio Koševo
Sabato, 6 giugno 2015

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Cari fratelli e sorelle,

nelle Letture bibliche che abbiamo ascoltato è risuonata più volte la parola "pace". Parola profetica per eccellenza! Pace è il sogno di Dio, è il progetto di Dio per l'umanità, per la storia, con tutto il creato. Ed è un progetto che incontra sempre opposizione da parte dell'uomo e da parte del maligno. Anche nel nostro tempo l'aspirazione alla pace e l'impegno per costruirla si scontrano col fatto che nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati. È una sorta di terza guerra mondiale combattuta "a pezzi"; e, nel contesto della comunicazione globale, si percepisce un clima di guerra.

C'è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi. Ma la guerra significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa dislocamenti forzati; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate. Voi lo sapete bene, per averlo sperimentato proprio qui: quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, cari fratelli e sorelle, si leva ancora una volta da questa città il grido del popolo di Dio e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà: mai più la guerra!

All'interno di questo clima di guerra, come un raggio di sole che attraversa le nubi, risuona la parola di Gesù nel Vangelo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). È un appello sempre attuale, che vale per ogni generazione. Non dice "Beati i predicatori di pace": tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. No. Dice: «Beati gli operatori di pace», cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia… Questi sì, «saranno chiamati figli di Dio», perché Dio semina pace, sempre, dovunque; nella pienezza dei tempi ha seminato nel mondo il suo Figlio perché avessimo la pace! Fare la pace è un lavoro da portare avanti tutti i giorni, passo dopo passo, senza mai stancarsi.

E come si fa, come si costruisce la pace? Ce lo ha ricordato, in maniera essenziale, il profeta Isaia: «Praticare la giustizia darà pace» (32,17). "Opus iustitiae pax", secondo la versione della "Vulgata" diventata un celebre motto, adottato anche profeticamente dal Papa Pio XII. La pace è opera della giustizia. Anche qui: non una giustizia declamata, teorizzata, pianificata… ma la giustizia praticata, vissuta. E il Nuovo Testamento ci insegna che il pieno compimento della giustizia è amare il prossimo come sé stessi (cfr Mt 22,39; Rm 13,9).

Quando, con la grazia di Dio, noi seguiamo questo comandamento, come cambiano le cose! Perché cambiamo noi! Quella persona, quel popolo, che vedevo come nemico, in realtà ha il mio stesso volto, il mio stesso cuore, la mia stessa anima. Abbiamo lo stesso Padre nei cieli. Allora la vera giustizia è fare a quella persona, a quel popolo, ciò che vorrei fosse fatto a me, al mio popolo (cfr Mt 7,12).

San Paolo, nella seconda Lettura, ci ha indicato gli atteggiamenti necessari per fare la pace: «Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (3,12-13).

Ecco gli atteggiamenti per essere "artigiani" di pace nel quotidiano, là dove viviamo. Non illudiamoci però che questo dipenda solo da noi! Cadremmo in un moralismo illusorio. La pace è dono di Dio, non in senso magico, ma perché Lui, con il suo Spirito, può imprimere questi atteggiamenti nei nostri cuori e nella nostra carne, e fare di noi dei veri strumenti della sua pace. E, andando in profondità, l'Apostolo dice che la pace è dono di Dio perché è frutto della sua riconciliazione con noi. Solo se si lascia riconciliare con Dio, l'uomo può diventare operatore di pace.

Cari fratelli e sorelle, oggi domandiamo insieme al Signore, per intercessione della Vergine Maria, la grazia di avere un cuore semplice, la grazia della pazienza, la grazia di lottare e lavorare per la giustizia, di essere misericordiosi, di operare per la pace, di seminare la pace e non guerra e discordia. Questo è il cammino che rende felici, che rende beati.

 

sabato 2 maggio 2015

Alla Comunità di vita cristiana (CVX) – Lega Missionaria Studenti d’Italia (30 aprile 2015)


Alla Comunità di vita cristiana (CVX) – Lega Missionaria Studenti d'Italia (30 aprile 2015)

INCONTRO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
CON LE COMUNITÀ DI VITA CRISTIANA (CVX)
E LA LEGA MISSIONARIA STUDENTI D'ITALIA

Aula Paolo VI
Giovedì, 30 aprile 2015

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DOMANDE DI ALCUNI MEMBRI DEL MOVIMENTO E RISPOSTE A BRACCIO DEL SANTO PADRE

Paola:

Santo Padre – non è un modo di dire – sono Paola. Presto servizio al carcere di Arghillà, Reggio Calabria. Lì incontro molta sofferenza e tutte le contraddizioni del nostro mondo. Le chiediamo una luce. Tra di noi, in questi ambienti, è facile parlare di speranza, è una parola che ci è familiare; ma come farlo con un ergastolano? Con un uomo che è definito "fine-pena-mai"? E poi volevo chiederle anche come affinare la nostra coscienza, in maniera tale che stare insieme a chi soffre non sia per noi una semplice beneficenza, ma riesca a convertire il nostro cuore, profondamente, e ci renda capaci di lottare con coraggio per un mondo più giusto? Grazie, Santo Padre, perché fa sentire ciascuno di noi, in qualunque condizione ci troviamo, un figlio amato.

Papa Francesco:

Paola, qui ho scritte le tue due domande – sono due! Tu sai che a me piace dire – è un modo di dire, ma è la verità del Vangelo – che dobbiamo uscire e andare fino alle periferie. Uscire anche per andare alla periferia della trascendenza divina nella preghiera, ma sempre uscire. Il carcere è una delle periferie più brutte, con più dolore. Andare in carcere significa prima di tutto dire a sé stesso: "Se io non sono qui, come questa, come questo, è per pura grazia di Dio". Pura grazia di Dio. Se noi non siamo scivolati in questi sbagli, anche in questi reati o crimini, alcuni forti, è perché il Signore ci ha tenuto per mano. Non si può entrare in carcere con lo spirito di "io vengo qui a parlarti di Dio, perché, abbi pazienza, tu sei di una classe inferiore, sei un peccatore…". No, no! Io sono più peccatore di te, e questo è il primo passo. Nel carcere uno può dirlo con tanto coraggio; ma dobbiamo dirlo sempre. Quando noi andiamo a predicare Gesù Cristo a gente che non lo conosce, o che fa una vita che non sembra molto morale, pensare che io sono più peccatore di lui, perché se io non sono caduto in quella situazione è per la grazia di Dio. Questa è una condizione indispensabile. Noi non possiamo andare nelle periferie senza questa coscienza. Paolo, Paolo aveva questa coscienza. Lui dice di sé stesso che è il più grande peccatore. Dice anche una parola bruttissima di sé stesso: "Io sono un aborto" (cfr 1 Cor 15,8). Ma questo è nella Bibbia, è la Parola di Dio, ispirata dallo Spirito Santo! Non è fare la faccia da immaginetta come dicono dei santi. I santi si sentivano peccatori perché avevano capito questo! E la grazia del Signore ci sostiene. Se tu, se io, se ognuno di voi non ha questo non potrà prendere il mandato di Gesù, la missione di Gesù: "Andate fino ai confini del mondo, a tutte le nazioni, nelle periferie" (cfr Mt 28,20). E chi sono quelli che sono stati incapaci di ricevere questo? Le persone chiuse, i dottori, quei dottori della legge, quella gente chiusa che non ha accettato Gesù, non ha accettato il suo messaggio di uscire. Sembravano giusti, sembravano gente di Chiesa, ma Gesù dice loro una parola non tanto bella: "Ipocriti". Così li chiama Gesù. E per farci capire come sono loro, la fotografia che Gesù fa di loro è: "Voi siete sepolcri imbiancati" (cfr Mt 23,27). Chi è chiuso, non può ricevere, è incapace di ricevere questo coraggio dello Spirito Santo, e rimane chiuso e non può andare in periferia. Tu chiedi al Signore di rimanere aperta alla voce dello Spirito, per andare in quella periferia. Poi domani, forse, ti chiederà di andare in un'altra, tu non lo sai… Ma sempre è il Signore che ci invia. E nel carcere dire sempre questo, anche con tante persone che soffrono: perché questa persona soffre e io no? Perché questa persona non conosce Dio, non ha speranza nella vita eterna, pensa che tutto finisce qua, e io no? Perché questa persona viene accusata nei tribunali perché è corrotta, per quest'altro…, e io no? Per la grazia del Signore! Questa è la più bella preparazione per andare nelle periferie.

Poi, tu dici: "Di quale speranza io parlo, con questa gente in carcere?". Tanti sono condannati a morte… No, in Italia, non c'è la pena di morte, ma un ergastolano… L'ergastolo è una condanna a morte, perché si sa che di lì non si esce. E' duro. Cosa dico a quell'uomo? Cosa dico a quella donna? Forse… non dire niente. Prendere la mano, accarezzarlo, piangere con lui, piangere con lei… Così, avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Avvicinarsi al cuore che soffre. Tante volte noi non possiamo dire niente, niente, perché una parola sarebbe un'offesa. Soltanto i gesti. I gesti che fanno vedere l'amore. "Tu sei un ergastolano, qui, ma io condivido con te questo pezzo di vita di ergastolo". Quel condividere con l'amore, niente di più. Questo è seminare l'amore.

E poi metti il dito nella piaga: "Come affinare la nostra coscienza, perché stare insieme a chi soffre non sia per noi semplice beneficienza, ma converta il nostro cuore e ci renda capaci di lottare con coraggio per un mondo più giusto?". La beneficienza è uno scalino: Tu hai fame? – Sì – Ti do da mangiare, oggi. La beneficienza è il primo passo verso la promozione. E questo non è facile. Come promuovere i bambini affamati? Come promuovere… Parliamo di bambini, adesso: come promuovere i bambini senza educazione? Come promuovere i bambini che non sanno ridere e che se tu li accarezzi ti danno uno schiaffo, perché a casa loro vedono che il papà dà schiaffi alla mamma? Come promuovere? Come promuovere la gente che ha perso il lavoro, come accompagnare e promuovere, fare strada con loro? Con chi ha bisogno del lavoro, perché senza il lavoro una persona si sente senza dignità. Sì, sta bene, tu gli porti da mangiare. Ma la dignità è che lui, lei, portino da mangiare a casa: questo dà dignità! E' la promozione - il presidente ne ha parlato [si riferisce al presidente delle CVX che ha parlato prima]: tante cose che voi fate… Una cosa che fa la differenza tra la beneficienza abituale – non dico la beneficienza per uscire dalle difficoltà più gravi –, tra la beneficienza abituale e la promozione, è che la beneficienza abituale ti tranquillizza l'anima: "Io oggi ho dato da mangiare, adesso vado tranquillo a dormire". La promozione ti inquieta l'anima: "Devo fare di più… E domani questo, e dopodomani quello, e cosa faccio…". Quella sana inquietudine dello Spirito Santo.

Questo è quello che mi viene di dirti. Che questo non sia per noi semplice beneficienza, ma converta il nostro cuore. E questa inquietudine che ti dà lo Spirito Santo per trovare strade per aiutare, promuovere i fratelli e le sorelle, questo ti unisce a Gesù Cristo: questo è penitenza, questo è croce, ma questo è gioia. Una gioia grande, grande, grande che ti dà lo Spirito quando dai questo. Non so se ti aiuta, quello che ti ho detto… Perché, quando mi fanno queste domande, il pericolo – anche il pericolo del Papa – è credere che possa rispondere a tutte le domande … Ma l'unico che può rispondere a tutte le domande è il Signore. Il mio lavoro è semplicemente ascoltare e dire quello che mi viene da dentro. Ma molto insufficiente e molto poco.

Tiziana:

Santo Padre, sono Tiziana e vengo da Cagliari. Mi sento emozionata e felice: stare davanti a Lei è realizzare un sogno che ho avuto fin da bambina. Faccio parte della Comunità di Vita Cristiana e della Lega Missionaria Studenti, attraverso cui ho avuto il privilegio di vivere meravigliose esperienze di comunione e servizio. Però, oggi, parlando con il cuore in mano Le confido che la speranza a volte la perdo. A volte la mia fragilità è la stessa di tanti giovani. Aiuti me e tutti noi a capire che Dio non ci abbandona mai, che noi giovani possiamo ancora sognare in mezzo a chi vuole toglierci questo dono.

Papa Francesco:

Ai giovani mi piace dire: "Non lasciatevi rubare la speranza". Ma la tua domanda va oltre: "Ma di che speranza mi parla, Padre?". Alcuni possono pensare che la speranza sia avere una vita comoda, una vita tranquilla, raggiungere qualcosa… E' una speranza controllata, una speranza che può andare bene in laboratorio. Ma se tu stai nella vita e lavori nella vita, con tanti problemi, con tanto scetticismo che ti offre la vita, con tanti fallimenti, "di che speranza mi parla, Padre?". Sì, io posso dirti: "Ma tutti andremo in Cielo". Sì, è vero. Il Signore è buono. Ma io voglio un mondo migliore, e sono fragile, e non vedo come questo si possa fare. Io voglio "immischiarmi", per esempio nel lavoro della politica, o della medicina… Ma alcune volte trovo corruzione, lì, e lavori che sono per servire diventano affari. Io voglio "immischiarmi" nella Chiesa, e anche lì il diavolo semina corruzione e tante volte c'è… Io ricordo quella Via Crucis di Papa Benedetto XVI, quando ci invitava a cacciare via le sporcizie della Chiesa… Anche nella Chiesa c'è corruzione. Sempre c'è qualcosa che delude la speranza e così non si può… Ma la speranza vera è un dono di Dio, è un regalo, e quella non delude mai. Ma come si fa, come si fa per capire che Dio non ci abbandona, che Dio è con noi, che è in cammino con noi? Oggi, all'inizio della Messa, c'era un versetto di un salmo molto bello, molto bello: "Quando Tu, Signore, camminavi in mezzo al tuo popolo, quando Tu lottavi con noi, la Terra tremava e i Cieli stillavano" (cfr Sal 68,8-9.20). Sì. Ma non sempre si vede, questo. Soltanto, una cosa della quale io sono sicuro – ne sono sicuro, ma non sempre lo sento, ma sono sicuro –: Dio cammina con il suo popolo. Dio mai abbandona il suo popolo. Lui è il pastore del suo popolo. Ma quando io faccio un peccato, quando io faccio uno sbaglio, quando io faccio una cosa ingiusta, quando io vedo tante cose, io domando: "Signore, dove sei? Dove stai?". Oggi, tanti innocenti che muoiono: dove stai, Signore? E' possibile fare qualcosa? La speranza è una delle virtù più difficili da capire, e alcuni grandi – penso che sia stato Péguy, uno di quelli che dicevano che è la più umile delle virtù, la speranza, perché è la virtù degli umili. Ma bisogna abbassarsi tanto perché il Signore ce la doni, perché il Signore ce la dia. E' lui che ci sostiene. Ma dimmi: che speranza può avere, dal punto di vista naturale, pensiamo a un ospedale: una suora che da 40 anni è nel reparto di malattie terminali, e ogni giorno uno, l'altro, l'altro, l'altro… Sì, credo in Dio, ma l'amore che dà quella donna sempre finisce, finisce, finisce… e a un certo punto quella donna può dire a Dio: "Ma questo è il mondo che Tu hai fatto? Si può sperare qualcosa da Te?". La tentazione, quando noi siamo nelle difficoltà, quando noi vediamo le brutalità che succedono nel mondo, la speranza sembra cadere. Ma nel cuore umile rimane. E' difficile capire questo perché la tua domanda è molto profonda. Come non lasciare la lotta e fare la dolce vita, così, senza speranza, è più facile… Il servizio è lavoro da umili, oggi l'abbiamo sentito nel Vangelo. Gesù è venuto per servire, non per essere servito. E la speranza è virtù degli umili. Credo che questa può essere la strada. Ti dico con sincerità: non mi viene di dirti un'altra cosa. Umiltà e servizio: queste due cose custodiscono la piccola speranza, la virtù più umile, ma quella che ti dà la vita.

Bartolo:

Carissimo Santo Padre, mi chiamo Bartolo e sono sacerdote diocesano da nove anni. Attualmente la missione affidatami è quella di formatore di seminaristi e docente presso il Seminario campano interregionale di Napoli, retto dai Padri Gesuiti; luogo in cui tante volte si danno molte cose per scontate: la formazione in genere … Da circa dieci anni collaboro con padre Massimo Nevola nell'animazione dei campi missionari, in particolare a Cuba, proposti a giovani adulti della Lega Missionaria Studenti. Attraverso queste esperienze ho toccato con mano le ferite del Signore nella povertà degli uomini del nostro tempo, che mi hanno messo in crisi e mi hanno spinto a cercare di più il Suo volto. E questo ha rafforzato molto la mia vocazione presbiterale, che sento sempre più come un dono per tutta l'umanità e la Chiesa. Le volevo chiedere, vista anche la presenza di tante parrocchie: che apporto specifico può offrire un movimento di ispirazione ignaziana, quale la Cvx, per la formazione cristiana di operatori pastorali, e la Lega missionaria studenti per il coinvolgimento e l'educazione alla mondialità di giovani? Grazie.

Papa Francesco:

Il presidente ha fatto memoria di un motto ignaziano: "contemplativo nell'azione". Essere contemplativo nell'azione non è camminare nella vita guardando il cielo, perché cadrai in una buca, di sicuro!… Bisogna capire cosa significa questa contemplazione. Tu hai detto una cosa, una parola che mi ha colpito: ho toccato con mano le ferite del Signore nelle povertà degli uomini del nostro tempo. E questa credo che sia una delle migliori medicine per una malattia che ci colpisce tanto, che è l'indifferenza. Anche lo scetticismo: credere che non si possa fare niente. Il patrono degli indifferenti e degli scettici è Tommaso: Tommaso ha dovuto toccare le ferite. C'è un bellissimo discorso, una bellissima meditazione di san Bernardo sulle piaghe del Signore. Tu sei prete, puoi trovarla nella terza settimana di Quaresima, nell'Ufficio delle Letture, non ricordo in che giorno. Entrare nelle ferite del Signore: noi serviamo un Signore piagato d'amore; le mani del nostro Dio sono mani piagate di amore. Essere capaci di entrare lì… E ancora Bernardo continua: "Sii fiducioso: entra nella ferita del suo fianco e contemplerai l'amore di quel cuore". Le ferite dell'umanità, se tu ti avvicini lì, se tu tocchi – e questa è dottrina cattolica – tocchi il Signore ferito. Questo lo troverai in Matteo 25, non sono eretico dicendo questo. Quando tu tocchi le ferite del Signore, tu capisci un po' di più il mistero di Cristo, di Dio incarnato. Questo è proprio il messaggio di Ignazio, nella spiritualità: una spiritualità dove al centro è Gesù Cristo, non le istituzioni, non le persone, no. Gesù Cristo. Ma Cristo incarnato! E quando tu fai gli Esercizi spirituali, lui ti dice che vedendo il Signore che soffre, le ferite del Signore, sforzati di piangere, di sentire dolore. E la spiritualità ignaziana dà al vostro Movimento questa strada, offre questa strada: entrare nel cuore di Dio attraverso le ferite di Gesù Cristo. Cristo ferito negli affamati, negli ignoranti, negli scartati, negli anziani soli, negli ammalati, nei carcerati, nei pazzi… è lì. E quale potrebbe essere lo sbaglio più grande per uno di voi? Parlare di Dio, trovare Dio, incontrare Dio ma un Dio, un "Dio-spray", un Dio diffuso, un Dio etereo… Ignazio voleva che tu incontrassi Gesù Cristo, il Signore, che ti ama e ha dato la sua vita per te, ferito per il tuo peccato, per il mio peccato, per tutti… E le ferite del Signore sono dappertutto. In questo che tu hai detto c'è proprio la chiave. Noi possiamo parlare tanto di teologia, tanto… cose buone, parlare di Dio… ma la strada è che tu sia capace di contemplare Gesù Cristo, leggere il Vangelo, cosa ha fatto Gesù Cristo: è Lui, il Signore! E innamorarti di Gesù Cristo e dire a Gesù Cristo che ti scelga per seguirlo, per essere come Lui. E questo si fa con la preghiera e anche toccando le ferite del Signore. Mai conoscerai, tu, Gesù Cristo se non tocchi le sue piaghe, le sue ferite. Lui è stato ferito per noi. Questa è la strada, è la strada che offre la spiritualità ignaziana a tutti noi: il cammino… E vado anche un po' oltre: tu sei formatore di futuri sacerdoti. Per favore, se tu vedi un ragazzo intelligente, bravo, ma che non ha questa esperienza di toccare il Signore, di abbracciare il Signore, di amare il Signore ferito, consigliagli di andarsene a prendere una bella vacanza di uno o due anni… e gli farai del bene. "Ma, Padre, noi siamo pochi sacerdoti: ne abbiamo bisogno…". Per favore, che l'illusione della quantità non ci inganni e ci faccia perdere di vista la qualità! Abbiamo bisogno di sacerdoti che preghino. Ma che preghino Gesù Cristo, che sfidino Gesù Cristo per il loro popolo, come Mosè che aveva la faccia tosta per sfidare Dio e salvare il popolo che Dio voleva distruggere, con quel coraggio davanti a Dio; sacerdoti che abbiano anche il coraggio di soffrire, di portare la solitudine e dare tanto amore. Anche per loro vale quel discorso di Bernardo sulle piaghe del Signore. Capito? Grazie.

Gianni:

Santo Padre, io sono Gianni, vengono dalla CVX dell'Aquila. Siamo impegnati da oltre 30 anni nel volontariato, nell'associazionismo e nella politica. Allora, nel nostro impegno nella vita sociale vorremmo che ognuno – specialmente chi è più giovane tra noi – comprenda che oltre al bene privato, troppo spesso prevalente, esiste un interesse generale che appartiene alla comunità intera. Santo Padre, quale discernimento può venirci dalla spiritualità ignaziana per aiutarci a mantenere vivo il rapporto tra la fede in Gesù Cristo e la responsabilità ad agire sempre per la costruzione di una società più giusta e solidale? Grazie.

Papa Francesco:

Credo che a questa domanda che tu hai fatto risponderebbe molto meglio di me padre Bartolomeo Sorge – non so se è qui, no, non l'ho visto… - Lui è stato uno bravo! Lui è un gesuita che ha aperto la strada in questo campo della politica. Ma si sente dire: "Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!". Questa non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. "No, non diciamo partito, ma… un partito solo dei cattolici". Non serve, e non avrà capacità di coinvolgere, perché farà quello per cui non è stato chiamato. "Ma un cattolico può fare politica?" – "Deve!" – "Ma un cattolico può immischiarsi in politica?" – "Deve!". Il beato Paolo VI, se non sbaglio, ha detto che la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. "Ma Padre, fare politica non è facile, perché in questo mondo corrotto… alla fine tu non puoi andare avanti…". Cosa vuoi dirmi, che fare politica è un po' martiriale? Sì. Sì: è una sorta di martirio. Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere. Cercare il bene comune pensando le strade più utili per questo, i mezzi più utili. Cercare il bene comune lavorando nelle piccole cose, piccoline, da poco… ma si fa. Fare politica è importante: la piccola politica e la grande politica. Nella Chiesa ci sono tanti cattolici che hanno fatto una politica non sporca, buona; anche che hanno favorito la pace tra le Nazioni. Pensate ai cattolici qui, in Italia, del dopoguerra: pensate a De Gasperi. Pensate alla Francia: Schumann, che ha la causa di beatificazione. Si può diventare santo facendo politica. E non voglio nominarne più: valgono due esempi, di quelli che vogliono andare avanti nel bene comune. Fare politica è martiriale: davvero un lavoro martiriale, perché bisogna andare tutto il giorno con quell'ideale, tutti i giorni, con quell'ideale di costruire il bene comune. E anche portare la croce di tanti fallimenti, e anche portare la croce di tanti peccati. Perché nel mondo è difficile fare il bene in mezzo alla società senza sporcarsi un poco le mani o il cuore; ma per questo vai a chiedere perdono, chiedi perdono e continua a farlo. Ma che questo non ti scoraggi. "No, Padre, io non faccio politica perché non voglio peccare" – "Ma non fai il bene! Vai avanti, chiedi al Signore che ti aiuti a non peccare, ma se ti sporchi le mani, chiedi perdono e vai avanti!". Ma fare, fare…

E lottare per una società più giusta e solidale. Qual è la soluzione che oggi ci offre questo mondo globalizzato, per la politica? Semplice: al centro, il denaro. Non l'uomo e la donna, no. Il denaro. Il dio denaro. Questo al centro. Tutti al servizio del dio denaro. Ma per questo ciò che non serve al dio denaro si scarta. E ciò che ci offre oggi il mondo globalizzato è la cultura dello scarto: quello che non serve, si scarta. Si scartano i bambini, perché non si fanno bambini o perché si uccidono i bambini prima di nascere. Si scartano gli anziani, perché… gli anziani non servono… Ma adesso che manca il lavoro vanno a trovare i nonni perché la pensione ci aiuti! Ma servono momentaneamente. Si scartano, si abbandonano gli anziani. E adesso, il lavoro si deve diminuire perché il dio denaro non può fare tutto, e si scartano i giovani: qui, in Italia, giovani dai 25 anni in giù – non voglio sbagliare, correggimi – il 40-41% è senza lavoro. Si scarta… Ma questo è il cammino della distruzione. Io cattolico guardo dal balcone? Non si può guardare dal balcone! Immischiati lì! Da' il meglio di te. Se il Signore ti chiama a quella vocazione, va' lì, fai politica. Ti farà soffrire, forse ti farà peccare, ma il Signore è con te. Chiedi perdono e vai avanti. Ma non lasciamo che questa cultura dello scarto ci scarti tutti! Scarta anche il creato, perché il creato ogni giorno viene distrutto di più. Non dimenticare quella parola del beato Paolo VI: la politica è una delle forme più alte della carità. Non so se ho risposto…

Io avevo scritto un discorso… forse noioso, come tutti i discorsi; ma lo consegnerò, perché ho preferito questo dialogo…

[Poi il Papa recita con tutta l'Assemblea una Preghiera alla Madonna della Strada.]

E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.


DISCORSO PREPARATO DAL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

saluto tutti voi, che rappresentate la Comunità di Vita Cristiana d'Italia, e gli esponenti dei vari gruppi di spiritualità ignaziana, vicini alla vostra tradizione formativa e impegnati nell'evangelizzazione e nella promozione umana. Un saluto particolare agli alunni ed ex-alunni dell'Istituto "Massimo" di Roma, come pure alle rappresentanze di altre scuole dirette dai Gesuiti in Italia.

Conosco bene la vostra Associazione per esserne stato assistente nazionale in Argentina, alla fine degli anni settanta. Le vostre radici affondano nelle Congregazioni Mariane, che risalgono alla prima generazione dei compagni di sant'Ignazio di Loyola. Si tratta di un lungo percorso nel quale l'Associazione si è distinta in tutto il mondo per l'intensa vita spirituale e lo zelo apostolico dei suoi membri, e anticipando, per certi versi, i dettami del Concilio Vaticano II circa il ruolo e il servizio dei fedeli laici nella Chiesa. Nel solco di questa prospettiva, avete scelto il tema del vostro Convegno, che ha come titolo "Oltre i muri".

Oggi vorrei offrirvi alcune linee per il vostro cammino spirituale e comunitario.

La prima: l'impegno per diffondere la cultura della giustizia e della pace. Di fronte alla cultura della illegalità, della corruzione e dello scontro, voi siete chiamati a dedicarvi al bene comune, anche mediante quel servizio alle gente che si identifica nella politica. Essa, come affermava il beato Paolo VI, «è la forma più alta ed esigente della carità». Se i cristiani si disimpegnassero dall'impegno diretto nella politica, sarebbe tradire la missione dei fedeli laici, chiamati ad essere sale e luce nel mondo anche attraverso questa modalità di presenza.

Come seconda priorità apostolica vi indico la pastorale familiare, nel solco degli approfondimenti dell'ultimo Sinodo dei Vescovi. Vi incoraggio ad aiutare le comunità diocesane nell'attenzione per la famiglia, cellula vitale della società, e nell'accompagnamento al matrimonio dei fidanzati. Al tempo stesso, potete collaborare all'accoglienza dei cosiddetti "lontani": tra di essi vi sono non pochi separati, che soffrono per il fallimento del loro progetto di vita coniugale, come pure altre situazioni di disagio familiare, che possono rendere faticoso anche il cammino di fede e di vita nella Chiesa.

La terza linea che vi suggerisco è la missionarietà. Ho appreso con piacere che avete avviato un cammino comune con la Lega Missionaria Studenti, che vi ha proiettato sulle strade del mondo, nell'incontro con i più poveri e con le comunità che più necessitano di operatori pastorali. Vi incoraggio a mantenere questa capacità di uscire e di andare verso le frontiere dell'umanità più bisognosa. Oggi avete invitato delegazioni di membri delle vostre comunità presenti nei Paesi dei vostri gemellaggi, specie in Siria e Libano: popoli martoriati da terribili guerre; ad essi rinnovo il mio affetto e la mia solidarietà. Queste popolazioni stanno sperimentando l'ora della croce, pertanto facciamo sentire loro l'amore, la vicinanza e il sostegno di tutta la Chiesa. Il vostro legame solidale con esse, confermi la vostra vocazione a tessere ovunque ponti di pace.

Il vostro stile di fraternità, che vi sta impegnando anche in progetti di accoglienza dei migranti in Sicilia, vi renda generosi nell'educazione dei giovani, sia all'interno della vostra associazione, sia nell'ambito delle scuole. Sant'Ignazio capì che per rinnovare la società bisognava partire dai giovani e stimolò l'apertura dei collegi. E in essi nacquero le prime Congregazioni Mariane. Sulla scia luminosa e feconda di questo stile apostolico, anche voi potete essere attivi nell'animazione delle varie istituzioni educative, cattoliche e statali, presenti in Italia, così come già avviene in tante parti del mondo. Alla base di questa vostra azione pastorale ci sia sempre la gioia della testimonianza evangelica, unita alla delicatezza dell'approccio e al rispetto dell'altro.

La Vergine Maria, che col suo "si" ispirò i vostri fondatori, vi conceda di rispondere senza riserve alla vocazione di essere "luce e sale" negli ambienti nei quali vivete e operate. Vi accompagni anche la mia benedizione che di cuore imparto a voi tutti e ai vostri familiari. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.


sabato 18 aprile 2015

A S.E. il Signor Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica Italiana (18 aprile 2015)


A S.E. il Signor Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica Italiana (18 aprile 2015)

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A S.E. IL SIGNOR SERGIO MATTARELLA,
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Sabato, 18 aprile 2015

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Signor Presidente,

Le sono grato per la Sua visita, che Ella compie a soli due mesi da quando i Rappresentanti del Popolo italiano L'hanno eletta alla più alta magistratura dello Stato. Tale gesto manifesta le eccellenti relazioni tra la Santa Sede e l'Italia e si pone in continuità con le visite effettuate dal Suo immediato Predecessore e con una ormai lunga tradizione, che, in particolare dal periodo conciliare, vede infittirsi le occasioni d'incontro tra le supreme Autorità civili italiane e quelle della Chiesa universale.

I Patti Lateranensi, recepiti dalla Carta Costituzionale repubblicana, e l'Accordo di Revisione dei medesimi hanno offerto un solido quadro di riferimento, all'interno del quale si sono pacificamente sviluppati e rafforzati i rapporti tra l'Italia e la Santa Sede, garantendo la reciproca sovranità e indipendenza e al tempo stesso il mutuo orientamento alla fattiva collaborazione, sulla base di valori condivisi e in vista del bene comune.

È fondamentale infatti che, nella distinzione dei ruoli e delle competenze e nel pieno rispetto delle reciproche funzioni, sia sempre sentita la necessità di una rinnovata collaborazione, finalizzata ad unire le forze per il bene di tutti i cittadini, che hanno il diritto a tale concordia, da cui derivano innumerevoli benefici.

La Chiesa offre a tutti la bellezza del Vangelo e del suo messaggio di salvezza, e ha bisogno, per svolgere la sua missione spirituale, di condizioni di pace e tranquillità, che solo i pubblici poteri possono promuovere.

D'altro canto, questi ultimi, a cui primariamente spetta di predisporre le condizioni di uno sviluppo equo e sostenibile, affinché la società civile dispieghi tutte le sue potenzialità, trovano nell'impegno e nella leale collaborazione della Chiesa un valido e utile sostegno per la loro azione. La reciproca autonomia infatti non fa venir meno ma esalta la comune responsabilità per l'essere umano concreto e per le esigenze spirituali e materiali della comunità, che tutti abbiamo il compito di servire con umiltà e dedizione.

Ne deriva che un sano pluralismo non si chiuderà allo specifico apporto offerto dalle varie componenti ideali e religiose che compongono la società, purché naturalmente esse accolgano i fondamentali principi che presiedono alla vita civile e non strumentalizzino o distorcano le loro credenze a fini di violenza e sopraffazione. In altre parole, lo sviluppo ordinato di una civile società pluralistica postula che non si pretenda di confinare l'autentico spirito religioso nella sola intimità della coscienza, ma che si riconosca anche il suo ruolo significativo nella costruzione della società, legittimando il valido apporto che esso può offrire.

La storia dell'Italia mostra chiaramente quanto sia grande il contributo del Cristianesimo alla sua cultura e al carattere della sua popolazione, quanto la fede cristiana abbia permeato l'arte, l'architettura e il costume del Paese. La fede si è trasformata in opere e queste in istituzioni, fino a dare volto ad una storia peculiare e a modellare pressoché tutti gli aspetti della vita, a partire dalla famiglia, primo e indispensabile baluardo di solidarietà e scuola di valori, che va aiutata a svolgere la sua insostituibile funzione sociale quale luogo fondamentale di crescita della persona.

Signor Presidente, tra i diversi beni necessari allo sviluppo di ogni collettività, il lavoro si distingue per il suo legame con la stessa dignità delle persone, con la possibilità di costruire un'esistenza dignitosa e libera. In special modo, la carenza di lavoro per i giovani diventa un grido di dolore che interpella i pubblici poteri, le organizzazioni intermedie, gli imprenditori privati e la comunità ecclesiale, perché si compia ogni sforzo per porvi rimedio, dando alla soluzione di questo problema la giusta priorità. Nella disponibilità del lavoro risiede infatti la stessa disponibilità di dignità e di futuro.

Per un'ordinata crescita della società è indispensabile che le giovani generazioni, tramite il lavoro, abbiano la possibilità di progettare con serenità il loro futuro, affrancandosi dalla precarietà e dal rischio di cedere a ingannevoli e pericolose tentazioni. Tutti coloro che detengono posizioni di speciale responsabilità hanno perciò il compito primario di affrontare con coraggio, creatività e generosità questo problema.

Un altro ambito che richiede oggi particolare attenzione da parte di tutti è la cura dell'ambiente. Per cercare di alleviare i crescenti squilibri ed inquinamenti, che a volte provocano veri e propri disastri ambientali, occorre acquisire piena consapevolezza degli effetti dei nostri comportamenti sul creato, che sono strettamente connessi al modo con cui l'uomo considera e tratta sé stesso (cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 51).

Tra pochi giorni si aprirà a Milano l'Esposizione Universale, che ha come tema: "Nutrire il pianeta. Energie per la vita". L'evento dell'Expo sarà un'importante occasione in cui verranno presentate le più moderne tecnologie necessarie a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto dell'ambiente. Possa esso contribuire anche ad approfondire la riflessione sulle cause del degrado ambientale, in modo da fornire alle autorità competenti un quadro di conoscenze ed esperienze indispensabile per adottare decisioni efficaci e preservare la salute del pianeta che Dio ha affidato alla cura del genere umano.

Desidero, infine, esprimere la mia gratitudine per l'impegno che l'Italia sta profondendo per accogliere i numerosi migranti che, a rischio della vita, chiedono accoglienza. E' evidente che le proporzioni del fenomeno richiedono un coinvolgimento molto più ampio. Non dobbiamo stancarci nel sollecitare un impegno più esteso a livello europeo e internazionale.

Signor Presidente, nel formularLe il mio più cordiale augurio per l'assolvimento del Suo alto compito, auspico che l'Italia, facendo tesoro delle sue nobili tradizioni e della sua cultura largamente ispirata dalla fede cristiana, possa progredire e prosperare nella concordia, offrendo il suo prezioso contributo alla pace e alla giustizia nel mondo.

Dio protegga l'Italia ed ogni suo abitante.


martedì 17 marzo 2015

IL PAPA E COMUNIONE E LIBERAZIONE. Cos’è successo veramente in Piazza San Pietro | Terre d'America di Alver Metalli


IL PAPA E COMUNIONE E LIBERAZIONE. Cos'è successo veramente in Piazza San Pietro

di Massimo Borghesi
filosofo

Non è stato un appuntamento rituale, meramente "ecclesiastico", l'incontro di papa Francesco, sabato 7 marzo in piazza San Pietro, con gli 80.000 di Comunione e Liberazione. Le parole che sono risuonate, del discorso papale, hanno indotto taluni a parlare di critiche aperte, di "bastonature", di un "amore non corrisposto", di trattamento ineguale rispetto a quello riservato ad altri movimenti. Insomma per CL, abituata ad essere al centro della scena ecclesiale sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sarebbe suonata la campana della sera. In realtà se si rilegge il discorso del Papa non è dato affatto di cogliere il tono negativo che i critici abituali di CL, sommati a coloro che non amano Francesco, hanno ritenuto di trovarvi. Sono presenti, certamente, delle osservazioni critiche, precise e puntuali, ma queste sono in profonda sintonia con quanto don Luigi Giussani, il sacerdote che è all'inizio dell'esperienza di Comunione e Liberazione, ha, a più riprese, mosso allo stesso movimento. L'ottica papale, cioè, non è stata quella di chi, diffidente da sempre, ha colto l'occasione per una reprimenda, ma di colui che, apprezzando chiaramente la testimonianza ed il pensiero di don Giussani, desidera che la realtà da lui promossa non si perda nelle strette dei formalismi, dell'autocompiacimento narcisistico, delle brame di potere, delle derive secolarizzanti.

DISAMORE O PATERNITA? Sulla stima che Bergoglio, già da cardinale di Buenos Aires, ha sempre nutrito verso la persona di Giussani non ci sono dubbi. In Argentina, in ben quattro occasioni, ne ha presentato i testi tradotti in lingua spagnola. In una di esse aveva dichiarato che: «Da molti anni gli scritti di Monsignor Giussani hanno ispirato la mia riflessione» (Cfr. M. Borghesi, Bergoglio e Giussani, le sintonie di fondo…). È quanto ha ribadito in Piazza S. Pietro: «Sono riconoscente a Don Giussani per varie ragioni. La prima, più personale, è il bene che quest'uomo ha fatto a me e alla mia vita sacerdotale, attraverso la lettura dei suoi libri e dei suoi articoli. L'altra ragione è che il suo pensiero è profondamente umano e giunge fino al più intimo dell'anelito dell'uomo». È all'interno di questa gratitudine, mai così esplicitamente espressa verso nessun altro "fondatore" di movimenti, che devono essere collocati i rilievi critici che poi si riducono sostanzialmente ad uno: l'autoreferenzialità. Si tratta di una deriva di cui Francesco ha parlato costantemente nel corso dei due anni del suo magistero, deriva che non riguarda solo CL ma la Chiesa nel suo complesso. Una Chiesa che doveva abbattere i bastioni della cittadella assediata, grazie al Concilio Vaticano II, e che è tornata invece, a partire dalla fine degli anni '80 in avanti, ad avvitarsi nuovamente in se stessa, a identificare servizio e burocrazia, a clericalizzarsi nella separazione tra leadership e popolo, a confidare negli spazi di potere residui. Questo processo ha toccato tutte le realtà ecclesiali, CL compresa. Il richiamo papale che è risuonato, in proposito, a piazza S. Pietro, si è ispirato direttamente a don Giussani: «Il riferimento all'eredità che vi ha lasciato Don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – "significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri". Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi!».

COSA SIGNIFICA CHE "AL CENTRO NON C'E' IL CARISMA"? È questa libertà che è mancata, in CL e altrove. La grande tentazione è di ridurre il fondatore a icona, di sistematizzarne il "discorso", di fissarne il pensiero in formule, in citazioni buone per tutte le stagioni. Si ha, allora, la monotona ripetizione di frasi distaccate dal contesto finalizzate all'autocelebrazione del carisma in funzione del potere intra ecclesiale. Si tratta di processi noti, che attraversano la storia degli ordini religiosi, che il Papa ha stigmatizzato sia riferendosi ai "suoi" Gesuiti sia nel discorso rivolto ai movimenti ecclesiali del novembre 2014 (Cfr. M. Borghesi, Francesco e i movimenti. Preservare la freschezza del carisma…). Nel caso di Comunione e Liberazione «il carisma originario non ha perso la sua freschezza e la sua vitalità». Si tratta di un riconoscimento importante. Il Papa non ha detto agli 80.000 di piazza S. Pietro che la loro esperienza era terminata, finita in un vicolo cieco, al punto che la Chiesa non ne aveva più bisogno. Al contrario, come un padre sollecito e preoccupato, ha chiesto di essere attenti a non dimenticare, a non tradire Giussani in nome di Giussani. «Però ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. Tutta la spiritualità, tutti i carismi nella Chiesa devono essere "decentrati": al centro c'è solo il Signore!». È uno dei passaggi più controversi, meno compresi del discorso papale. E, tuttavia, il senso è chiaro. La grandezza di don Giussani non è data semplicemente dalle sue doti ma dal suo "de-centrare", dal suo rimandare, in ogni cosa, a Cristo come cuore del mondo. In questo senso il metodo educativo che egli ha trasmesso non può essere isolato in se stesso, assolutizzato al modo di una tecnica. È la tentazione del razionalismo, o della gnosi. Come scriveva Giussani nel 1962: «Si può diventare fedelissimi nell'usare un metodo come formula e tramandarlo, accettarlo, senza che questo metodo continui a essere ispiratore di uno sviluppo: un metodo che non sviluppi una vita è un metodo sepolcrale, è silicizzazione [pietrificazione]» (A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli 2014, p. 254). Con parole analoghe il Papa ha parlato dei rischi che riguardano la trasmissione del carisma: «E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire "pietrificarlo" – è il diavolo quello che "pietrifica", non dimenticare! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro». Giussani non può e non deve essere mummificato, ripetuto in una litania di formule, utilizzato come fonte di legittimazione. Il carisma non va "ripetuto". Va rischiato, nel presente, secondo i suggerimenti che lo Spirito indica per affrontare situazioni nuove. In questo senso le due citazioni, tratte da Giussani, che il Papa ha richiamato alla fine del suo intervento, hanno il valore di un segnavia. Nella prima, del 1967, Giussani affermava: «Il cristianesimo non si realizza mai nella storia come fissità di posizioni da difendere, che si rapportino al nuovo come pura antitesi; il cristianesimo è principio di redenzione, che assume il nuovo, salvandolo» (Porta la speranza. Primi scritti, Genova 1997, 119). La seconda, dell'ultimo periodo della sua vita, recita: «Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta» (Lettera a Giovanni Paolo II, 26 gennaio 2004, in occasione dei 50 anni di Comunione e Liberazione).

DUE CITAZIONI CHE SEGNANO LA STRADA. Si tratta di due affermazioni che il Papa ha sentito come congeniali al suo modo di sentire, il punto d'incontro tra lui e don Giussani. Il cristianesimo non si afferma dialetticamente, a partire da un avversario, ma positivamente, redimendo il nuovo. È lo stile di papa Francesco. Inoltre oggi la Chiesa è chiamata a riporre fiducia negli "aspetti elementari del cristianesimo", non in se stessa, nel retaggio glorioso del suo passato. Tutto ciò per Francesco, così come per Giussani, significa una cosa fondamentale: il cristianesimo accade nell'esperienza di un "incontro". Questa intuizione, fondamentale, era già al centro della teologia di Ratzinger, da teologo e da papa. Francesco, da parte sua, ne ha ricordato la rilevanza per Giussani: «Voi sapete quanto importante fosse per Don Giussani l'esperienza dell'incontro: incontro non con un'idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo. Così lui ha educato alla libertà, guidando all'incontro con Cristo, perché Cristo ci dà la vera libertà». Questa dimensione – l'incontro – è quella che, insieme alla categoria di "senso religioso", unisce il Papa a don Giussani. In piazza S. Pietro il Papa l'ha rievocata con gli stessi esempi evangelici portati da Giussani negli anni '80 e '90. Mai un Papa aveva dimostrato una sintonia così evidente con la tonalità "visiva", esistenziale, propria di Giussani nel rievocare il contenuto del Vangelo. «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest'Uomo, il falegname di Nazaret, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso. Pensiamo al Vangelo di Giovanni, là dove racconta del primo incontro dei discepoli con Gesù (cfr 1,35-42). Andrea, Giovanni, Simone: si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò in loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui… O quando, dopo la Risurrezione, Gesù chiede a Pietro: "Mi ami?" (Gv. 21,15), e Pietro risponde: "Sì"; quel sì non era l'esito di una forza di volontà, non veniva solo dalla decisione dell'uomo Simone: veniva prima ancora dalla Grazia, era quel "primerear", quel precedere della Grazia. Questa fu la scoperta decisiva per san Paolo, per sant'Agostino, e tanti altri santi: Gesù Cristo sempre è primo, ci primerea, ci aspetta, Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera»

Francesco qui mostra, contro la critica che vorrebbe ridurre il suo pensiero ad una versione pelagiana e moralistica della teologia gesuitica della Scolastica spagnola, fonte prossima della Teologia della liberazione, come il cristianesimo sia, agostinianamente, un Avvenimento di grazia. Una Grazia che è, essenzialmente, misericordia. In totale sintonia con il Giussani degli ultimi anni, per il quale l'Essere è misericordia, Francesco afferma che: «non si può capire questa dinamica dell'incontro che suscita lo stupore e l'adesione senza la misericordia. Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. Il luogo privilegiato dell'incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato. E per questo, alcune volte, voi mi avete sentito dire che il posto, il luogo privilegiato dell'incontro con Gesù Cristo è il mio peccato. È grazie a questo abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare, e che può scaturire una vita diversa. La morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. Questa non è la morale cristiana, è un'altra cosa. La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura "ingiusta" secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me. La morale cristiana non è non cadere mai, ma alzarsi sempre, grazie alla sua mano che ci prende».

CORREZIONI LIBERANTI. La morale cristiana non sorge dall'impeto umano ma, diceva Giussani, dall'essere guardati, da uno sguardo amoroso che riflette quello di Cristo, dall'essere abbracciati da Lui. Che un Papa esprima un accento di così grande sintonia, su un tema così rilevante per la fede, è il più grande riconoscimento che Giussani potesse attendersi. Per il resto le correzioni, forti e delicate, che sono risuonate in piazza S. Pietro, hanno un valore liberante per coloro che sono oppressi dai legalismi e dai dispotismi che caratterizzano l'involuzione dei fenomeni comunitari. Consentono di superare quei processi di autoglorificazione – «Io sono Cl» – in cui le identità si solidificano come pietre. Rileggendo la biografia che Savorana ha dedicato a Giussani è possibile cogliere passi in cui non solo affermava: «della vostra compagnia io me ne infischio» (Savorana, 900), intendendo con ciò la riduzione sociologistica ed autoreferenziale del movimento, ma auspicava, altresì, un tramonto di Cl, almeno in prospettiva. «L'ideale per noi – affermava nel 1985 – sarebbe che CL scomparisse, perché resa inutile dal fatto che tutta la Chiesa ne vivesse gli accenti. Non di CL, ma gli accenti cristiani fondamentali che CL ha incominciato a sottolineare trent'anni fa» (Savorana, 668). Non era un modo di dire. Il movimento, per Giussani, non era per sé stesso, ma per la Chiesa e per il mondo. Se diveniva chiuso non era più un luogo di vita ma un peso dispotico che poteva solo complicare la vita. È la prospettiva che il Papa ha voluto correggere in totale sintonia con il lascito del sacerdote di Desio.


domenica 15 marzo 2015

Discorso di papa Francesco all'Udienza con il movimento di Comunione e Liberazione. Piazza San Pietro, 7 marzo 2015 - Testi di Francesco


Discorso di papa Francesco all'Udienza con il movimento di Comunione e Liberazione. Piazza San Pietro, 7 marzo 2015

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il benvenuto a tutti voi e vi ringrazio per il vostro affetto caloroso! Rivolgo il mio cordiale saluto ai Cardinali e ai Vescovi. Saluto Don Julián Carrón, Presidente della vostra Fraternità, e lo ringrazio per le parole che mi ha indirizzato a nome di tutti; e La ringrazio anche, Don Julián, per quella bella lettera che Lei ha scritto a tutti, invitandoli a venire. Grazie tante!

Il mio primo pensiero va al vostro Fondatore, Mons. Luigi Giussani, ricordando il decimo anniversario della sua nascita al Cielo. Sono riconoscente a Don Giussani per varie ragioni. La prima, più personale, è il bene che quest'uomo ha fatto a me e alla mia vita sacerdotale, attraverso la lettura dei suoi libri e dei suoi articoli. L'altra ragione è che il suo pensiero è profondamente umano e giunge fino al più intimo dell'anelito dell'uomo. Voi sapete quanto importante fosse per Don Giussani l'esperienza dell'incontro: incontro non con un'idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo. Così lui ha educato alla libertà, guidando all'incontro con Cristo, perché Cristo ci dà la vera libertà. Parlando dell'incontro mi viene in mente "La vocazione di Matteo", quel Caravaggio davanti al quale mi fermavo a lungo in San Luigi dei Francesi, ogni volta che venivo a Roma. Nessuno di quelli che stavano lì, compreso Matteo avido di denaro, poteva credere al messaggio di quel dito che lo indicava, al messaggio di quegli occhi che lo guardavano con misericordia e lo sceglievano per la sequela. Sentiva quello stupore dell'incontro. E' così l'incontro con Cristo che viene e ci invita.

Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest'Uomo, il falegname di Nazaret, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso. Pensiamo al Vangelo di Giovanni, là dove racconta del primo incontro dei discepoli con Gesù (cfr 1,35-42). Andrea, Giovanni, Simone: si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò in loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui... O quando, dopo la Risurrezione, Gesù chiede a Pietro: «Mi ami?» (Gv 21,15), e Pietro risponde: «Sì»; quel sì non era l'esito di una forza di volontà, non veniva solo dalla decisione dell'uomo Simone: veniva prima ancora dalla Grazia, era quel "primerear", quel precedere della Grazia. Questa fu la scoperta decisiva per san Paolo, per sant'Agostino, e tanti altri santi: Gesù Cristo sempre è primo, ci primerea, ci aspetta, Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera.

E non si può capire questa dinamica dell'incontro che suscita lo stupore e l'adesione senza la misericordia. Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. Il luogo privilegiato dell'incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato. E per questo, alcune volte, voi mi avete sentito dire che il posto, il luogo privilegiato dell'incontro con Gesù Cristo è il mio peccato. È grazie a questo abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare, e che può scaturire una vita diversa. La morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. Questa non è la morale cristiana, è un'altra cosa. La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura "ingiusta" secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me. La morale cristiana non è non cadere mai, ma alzarsi sempre, grazie alla sua mano che ci prende. E la strada della Chiesa è anche questa: lasciare che si manifesti la grande misericordia di Dio. Dicevo, nei giorni scorsi, ai nuovi Cardinali: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle "periferie" dell'esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio», che è quella della misericordia (Omelia, 15 febbraio 2015). Anche la Chiesa deve sentire l'impulso gioioso di diventare fiore di mandorlo, cioè primavera come Gesù, per tutta l'umanità.

Oggi voi ricordate anche i sessant'anni dell'inizio del vostro Movimento, «nato nella Chiesa – come vi disse Benedetto XVI –non da una volontà organizzativa della Gerarchia, ma originato da un incontro rinnovato con Cristo e così, possiamo dire, da un impulso derivante ultimamente dallo Spirito Santo» (Discorso al pellegrinaggio di Comunione e Liberazione, 24 marzo 2007: Insegnamenti III, 1 [2007], 557).

Dopo sessant'anni, il carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. Tutta la spiritualità, tutti i carismi nella Chiesa devono essere "decentrati": al centro c'è solo il Signore! Per questo, quando Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi parla dei carismi, di questa realtà così bella della Chiesa, del Corpo Mistico, termina parlando dell'amore, cioè di quello che viene da Dio, ciò che è proprio di Dio, e che ci permette di imitarlo. Non dimenticatevi mai di questo, di essere decentrati!

E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire "pietrificarlo" – è il diavolo quello che "pietrifica", non dimenticare! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro. Il riferimento all'eredità che vi ha lasciato Don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – "significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri". Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi!

Così, centrati in Cristo e nel Vangelo, voi potete essere braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa "in uscita". La strada della Chiesa è uscire per andare a cercare i lontani nelle periferie, a servire Gesù in ogni persona emarginata, abbandonata, senza fede, delusa dalla Chiesa, prigioniera del proprio egoismo.

"Uscire" significa anche respingere l'autoreferenzialità, in tutte le sue forme, significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera. Quando siamo schiavi dell'autoreferenzialità finiamo per coltivare una "spiritualità di etichetta": "Io sono CL". Questa è l'etichetta. E poi cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una ONG.

Cari amici, vorrei finire con due citazioni molto significative di Don Giussani, una degli inizi e una della fine della sua vita.

La prima: «Il cristianesimo non si realizza mai nella storia come fissità di posizioni da difendere, che si rapportino al nuovo come pura antitesi; il cristianesimo è principio di redenzione, che assume il nuovo, salvandolo» (Porta la speranza. Primi scritti, Genova 1997, 119). Questa sarà intorno al 1967.

La seconda del 2004: «Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta» (Lettera a Giovanni Paolo II, 26 gennaio 2004, in occasione dei 50 anni di Comunione e Liberazione).

Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me! Grazie.

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Celebrazione penitenziale (13 marzo 2015)


Celebrazione penitenziale (13 marzo 2015)

CELEBRAZIONE DELLA PENITENZA
RITO PER LA RICONCILIAZIONE DI PIÙ PENITENTI
CON LA CONFESSIONE E L'ASSOLUZIONE INDIVIDUALE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Venerdì, 13 marzo 2015

[Multimedia]


Anche quest'anno, alla vigilia della Quarta Domenica di Quaresima, ci siamo radunati per celebrare la liturgia penitenziale. Siamo uniti a tanti cristiani che, oggi, in ogni parte del mondo, hanno accolto l'invito a vivere questo momento come segno della bontà del Signore. Il Sacramento della Riconciliazione, infatti, permette di accostarci con fiducia al Padre per avere la certezza del suo perdono. Egli è veramente "ricco di misericordia" e la estende con abbondanza su quanti ricorrono a Lui con cuore sincero.

Essere qui per fare esperienza del suo amore, comunque, è anzitutto frutto della sua grazia. Come ci ha ricordato l'apostolo Paolo, Dio non cessa mai di mostrare la ricchezza della sua misericordia nel corso dei secoli. La trasformazione del cuore che ci porta a confessare i nostri peccati è "dono di Dio". Da noi soli non possiamo. Il poter confessare i nostri peccati è un dono di Dio, è un regalo, è "opera sua" (cfr Ef 2,8-10). Essere toccati con tenerezza dalla sua mano e plasmati dalla sua grazia ci consente, pertanto, di avvicinarci al sacerdote senza timore per le nostre colpe, ma con la certezza di essere da lui accolti nel nome di Dio, e compresi nonostante le nostre miserie; e anche di accostarci senza un avvocato difensore: ne abbiamo uno solo, che ha dato la sua vita per i nostri peccati! E' Lui che, con il Padre, ci difende sempre. Uscendo dal confessionale, sentiremo la sua forza che ridona la vita e restituisce l'entusiasmo della fede. Dopo la confessione saremo rinati.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Lc 7,36-50) ci apre un cammino di speranza e di conforto. E' bene sentire su di noi lo stesso sguardo compassionevole di Gesù, così come lo ha percepito la donna peccatrice nella casa del fariseo. In questo brano ritornano con insistenza due parole: amore e giudizio.

C'è l'amore della donna peccatrice che si umilia davanti al Signore; ma prima ancora c'è l'amore misericordioso di Gesù per lei, che la spinge ad avvicinarsi. Il suo pianto di pentimento e di gioia lava i piedi del Maestro, e i suoi capelli li asciugano con gratitudine; i baci sono espressione del suo affetto puro; e l'unguento profumato versato in abbondanza attesta quanto Egli sia prezioso ai suoi occhi. Ogni gesto di questa donna parla di amore ed esprime il suo desiderio di avere una certezza incrollabile nella sua vita: quella di essere stata perdonata. E questa certezza è bellissima! E Gesù le dà questa certezza: accogliendola le dimostra l'amore di Dio per lei, proprio per lei, una peccatrice pubblica! L'amore e il perdono sono simultanei: Dio le perdona molto, le perdona tutto, perché «ha molto amato» (Lc 7,47); e lei adora Gesù perché sente che in Lui c'è misericordia e non condanna. Sente che Gesù la capisce con amore, lei, che è una peccatrice. Grazie a Gesù, i suoi molti peccati Dio se li butta alle spalle, non li ricorda più (cfr Is 43,25). Perché anche questo è vero: quando Dio perdona, dimentica. E' grande il perdono di Dio! Per lei ora inizia una nuova stagione; è rinata nell'amore a una vita nuova.

Questa donna ha veramente incontrato il Signore. Nel silenzio, gli ha aperto il suo cuore; nel dolore, gli ha mostrato il pentimento per i suoi peccati; con il suo pianto, ha fatto appello alla bontà divina per ricevere il perdono. Per lei non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l'amore, la misericordia che va oltre la giustizia.

Simone, il padrone di casa, il fariseo, al contrario, non riesce a trovare la strada dell'amore. Tutto è calcolato, tutto pensato… Egli rimane fermo alla soglia della formalità. E' una cosa brutta, l'amore formale, non si capisce. Non è capace di compiere il passo successivo per andare incontro a Gesù che gli porta la salvezza. Simone si è limitato ad invitare Gesù a pranzo, ma non lo ha veramente accolto. Nei suoi pensieri invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie – alla formalità – non è stato capace di guardare al cuore. Dinanzi alla parabola di Gesù e alla domanda su quale servo abbia amato di più, il fariseo risponde correttamente: «Colui al quale ha condonato di più». E Gesù non manca di farlo osservare: «Hai giudicato bene» (Lc 7,43). Solo quando il giudizio di Simone è rivolto all'amore, allora egli è nel giusto.

Il richiamo di Gesù spinge ognuno di noi a non fermarsi mai alla superficie delle cose, soprattutto quando siamo dinanzi a una persona. Siamo chiamati a guardare oltre, a puntare sul cuore per vedere di quanta generosità ognuno è capace. Nessuno può essere escluso dalla misericordia di Dio. Tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore dev'essere l'amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono. Con quanto amore ci guarda Gesù! Con quanto amore guarisce il nostro cuore peccatore! Mai si spaventa dei nostri peccati. Pensiamo al figlio prodigo che, quando decide di tornare dal padre, pensa di fargli un discorso, ma il padre non lo lascia parlare, lo abbraccia (cfr Lc 15,17-24). Così Gesù con noi. "Padre, ho tanti peccati…" – "Ma Lui sarà contento se tu vai: ti abbraccerà con tanto amore! Non avere paura".

Cari fratelli e sorelle, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia. E' un cammino che inizia con una conversione spirituale; e dobbiamo fare questo cammino. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Sarà un Anno Santo della Misericordia. Lo vogliamo vivere alla luce della parola del Signore: "Siate misericordiosi come il Padre" (cfr Lc 6,36). E questo specialmente per i confessori! Tanta misericordia!

Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell'Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, Domenica di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l'organizzazione di questo Giubileo al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare ad ogni persona il Vangelo della misericordia.

Sono convinto che tutta la Chiesa, che ha tanto bisogno di ricevere misericordia, perché siamo peccatori, potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione ad ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo. Non dimentichiamo che Dio perdona tutto, e Dio perdona sempre. Non ci stanchiamo di chiedere perdono. Affidiamo fin d'ora questo Anno alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino: il nostro cammino penitenziale, il nostro cammino con il cuore aperto, durante un anno, per ricevere l'indulgenza di Dio, per ricevere la misericordia di Dio.


sabato 14 marzo 2015

Ai membri della Comunità "Seguimi" (14 marzo 2015)

Vi incoraggio ad essere laici in prima linea, a sentirvi parte attiva nella missione della Chiesa, a vivere la vostra secolarità dedicandovi alle realtà proprie della città terrena: la famiglia, le professioni, la vita sociale nelle diverse espressioni. Così potete contribuire, a modo di fermento, a immettere lo spirito del Vangelo nelle pieghe della storia con la testimonianza della fede, della speranza e della carità.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/march/documents/papa-francesco_20150314_comunita-seguimi.html

Ai membri della Comunità "Seguimi" (14 marzo 2015)

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA COMUNITÀ "SEGUIMI"

Sala Clementina
Sabato, 14 marzo 2015

[Multimedia]


Cari fratelli e sorelle,

vi accolgo in occasione del 50° anniversario della fondazione della vostra comunità, l'associazione laicale Seguimi. Vi saluto con affetto e ringrazio il Cardinale Vallini, che si è fatto interprete dei vostri sentimenti.

Come è stato ricordato, questa associazione è nata durante il Concilio Vaticano II, e dal magistero conciliare ha tratto l'ispirazione a vivere "il Vangelo senza sconti", come afferma il titolo di una vostra pubblicazione. Il gesto, simbolico e intensamente spirituale, dei primi membri di partire dalle Catacombe di San Callisto testimonia questa volontà, che avete espresso nella formula statutaria del vostro programma di vita: "Gesù Cristo vivo è al centro di Seguimi". Questo è molto bello. Vi incoraggio a vivere ogni giorno con impegno tale programma, cioè ad essere persone decentrate da voi stessi e a porre il vostro centro vitale nella Persona viva di Gesù. Tante volte, anche nella Chiesa, crediamo di essere buoni cristiani perché facciamo opere sociali e di carità bene organizzate. Va bene, sono cose buone. Ma non dobbiamo dimenticare che la linfa che porta la vita e trasforma i cuori è lo Spirito Santo, lo Spirito di Cristo. Lasciate che Lui, il Signore, occupi il centro del vostro cuore e del vostro operare. E proprio rimanendo saldamente uniti a Lui, come tralci alla vite (cfr Gv 15,1-9), potete andare verso le periferie del mondo.

I vostri Fondatori hanno tracciato alle prime compagne le linee fondazionali di Seguimi, percorrendo una via nuova configurata oltre le forme classiche di vita consacrata e alla quale il Pontificio Consiglio per i Laici ha concesso l'approvazione pontificia. L'impegno dei consigli evangelici in un contesto generale di laicità è assorbito nell'unico obbligo fondamentale della fedeltà all'amore del Padre, a Cristo e al suo Vangelo, fedeltà all'azione dello Spirito Santo che è amore e libertà, fedeltà al patto vocazionale tra i membri del Gruppo, a cui vi obbligate a non venire meno. La fedeltà in Seguimi è sentita come massimo valore morale naturale, al quale vi legate in coscienza per rispondere alla chiamata di Dio, senza altri vincoli giuridici di origine positiva, convinti che se la fedeltà è veramente vissuta, altri legami non sono necessari. Dunque, la vostra è una forma di vita evangelica da praticare in un contesto di laicità e di libertà. Un programma di vita cristiana per laici, con obiettivi chiari e impegnativi, un modo originale di incarnare il Vangelo, una via efficace per camminare nel mondo. Le diverse forme di appartenenza rappresentano altrettante modalità di impegno e di partecipazione agli ideali dell'unica comunità. Celibi e sposi, ciascuno nel proprio stato di vita, si incontrano e condividono un'esperienza arricchente di complementarietà.

Conservate e sviluppate questa comunione fraterna e lo scambio dei doni, finalizzati alla crescita umana e cristiana di tutti, insieme alla creatività, all'ottimismo, alla gioia e al coraggio di andare – quando è giusto – controcorrente. Siate vigilanti sul vostro cammino spirituale e aiutatevi a praticare sempre la reciproca carità, che vuol dire difendersi dall'egoismo individualista per essere veri testimoni del Vangelo.

Come laici, voi siete persone immerse nel mondo e vi impegnate all'interno delle realtà terrene per servire il bene dell'uomo. Siete chiamati a permeare di valori cristiani gli ambienti in cui operate con la testimonianza e la parola, incontrando le persone nelle loro situazioni concrete, affinché abbiano piena dignità e siano raggiunte dalla salvezza in Cristo. Egli è la pienezza per ogni esistenza umana: infatti, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 22).

Vi incoraggio ad essere laici in prima linea, a sentirvi parte attiva nella missione della Chiesa, a vivere la vostra secolarità dedicandovi alle realtà proprie della città terrena: la famiglia, le professioni, la vita sociale nelle diverse espressioni. Così potete contribuire, a modo di fermento, a immettere lo spirito del Vangelo nelle pieghe della storia con la testimonianza della fede, della speranza e della carità.

Cari amici, Seguimi possa essere sempre più una forma di vita cristiana e di impegno apostolico che promuove ed eleva i suoi membri rendendoli protagonisti insieme con gli altri di un mondo migliore.

Vi benedico di cuore e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.


mercoledì 4 marzo 2015

Francesco: facciamo il bene, non la "finta della santità" Radio Vaticana

Francesco: facciamo il bene, non la "finta della santità" Radio Vaticana

Francesco: facciamo il bene, non la "finta della santità"

Se si "impara a fare il bene", Dio "perdona generosamente" ogni peccato. Quello che non perdona è l'ipocrisia, "la finta della santità". Lo ha affermato Papa Francesco all'omelia della Messa del mattino, celebrata a Casa Santa Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis:

I finti santi, che anche davanti al cielo si preoccupano di sembrarvi più che di esservi, e i peccatori santificati, che al di là del male fatto hanno imparato a "fare" un bene più grande. Non c'è mai stato dubbio su chi Dio preferisca, afferma Papa Francesco, che pone queste due categorie al centro della sua meditazione.

La macchia si toglie col "fare"
Le parole della lettura di Isaia, spiega all'inizio, sono un imperativo e parallelamente un "invito" che viene direttamente da Dio: "Cessate di fare il male, imparate a fare il bene" difendendo orfani e vedove. Vale a dire – sottolinea Francesco – "quelli che nessuno ricorda" tra i quali, prosegue il Papa, ci sono anche "gli anziani abbandonati" "i bambini che non vanno a scuola" e quelli "che non sanno fare il segno della Croce". Dietro l'imperativo c'è in sostanza l'invito di sempre alla conversione:

"Ma come posso convertirmi? 'Imparate a fare il bene!'. La conversione. La sporcizia del cuore non si toglie come si toglie una macchia: andiamo in tintoria e usciamo puliti… Si toglie col 'fare': fare una strada diversa, un'altra strada da quella del male. 'Imparate a fare il bene!', cioè la strada del fare il bene. E come faccio il bene? E' semplice! 'Cercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova'. Ricordiamo che in Israele i più poveri e i più bisognosi erano gli orfani e le vedove: fate giustizia a loro, andate dove sono le piaghe dell'umanità, dove c'è tanto dolore… E così, facendo il bene, tu laverai il tuo cuore".

Perdono al di là di tutto
E la promessa di un cuore lavato, cioè perdonato, viene da Dio stesso, che non tiene la contabilità dei peccati davanti a chi ama concretamente il prossimo:

"Se tu fai questo, se tu vieni per questa strada, nella quale io ti invito – ci dice il Signore – 'anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve'. E' una esagerazione, il Signore esagera: ma è la verità! Il Signore ci dà il dono del suo perdono. Il Signore perdona generosamente. 'Ma io ti perdono fino a qui, poi vedremo l'altro….' No, no! Il Signore perdona sempre tutto! Tutto! Ma se tu vuoi essere perdonato, tu devi cominciare la strada del fare il bene. Questo è il dono!'.

La trappola dell'apparenza
Il Vangelo del giorno presenta invece il gruppo degli scaltri, quelli "che  - stigmatizza Francesco – dicono le cose giuste, ma che fanno il contrario". "Tutti – soggiunge – siamo furbi e sempre troviamo una strada che non è quella giusta, per sembrare più giusti di quello che siamo: è la strada dell'ipocrisia":

"Questi fanno finta di convertirsi, ma il loro cuore è una menzogna: sono bugiardi! E' una menzogna… Il loro cuore non appartiene al Signore; appartiene al padre di tutte le menzogne, a satana. E questa è la finta della santità. Mille volte Gesù preferiva i peccatori a questi. Perché? I peccatori dicevano la verità su loro stessi. 'Allontanati da me Signore che sono un peccatore!': lo aveva detto Pietro, una volta. Uno di questi mai dice questo! 'Ti ringrazio Signore, perché non sono peccatore, perché sono giusto'… Nella seconda settimana della Quaresima ci sono queste tre parole da pensare, da meditare: l'invito alla conversione,  il dono che ci darà il Signore e cioè un perdono grande, un grande perdono, e la trappola, cioè fare finta di convertirsi, ma prendere la strada dell'ipocrisia".



Inviato da iPhone

mercoledì 11 febbraio 2015

Vi Auguro di non stare mai tranquilli!!


Due carte d'identità (10 febbraio 2015)

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

Due carte d'identità

Martedì, 10 febbraio 2015

(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.033, Mer. 11/02/2015)

Per conoscere la nostra vera identità non possiamo essere «cristiani seduti» ma dobbiamo avere il «coraggio di metterci sempre in cammino per cercare il volto del Signore», perché noi siamo «immagine di Dio». Nella messa celebrata a Santa Marta martedì 10 febbraio, Papa Francesco, commentando la prima lettura liturgica — il racconto della creazione nel libro della Genesi (1, 20 - 2, 4) — ha riflettuto su una domanda essenziale per ogni persona: «Chi sono io?».

La nostra «carta d'identità», ha detto il Papa, si ritrova nel fatto che gli uomini sono stati creati «all'immagine, secondo la somiglianza di Dio». Ma allora, ha aggiunto, «la domanda che noi possiamo farci è: Come conosco, io, l'immagine di Dio? Come so com'è lui per sapere come sono io? Dove trovo l'immagine di Dio?». La risposta si trova «certamente non sul computer, non nelle enciclopedie, non nei libri», perché «non c'è un catalogo dove c'è l'immagine di Dio». C'è solo un modo «per trovare l'immagine di Dio, che è la mia identità» ed è quello di mettersi in cammino: «Se non ci mettiamo in cammino, mai potremo conoscere il volto di Dio».

Questo desiderio di conoscenza si ritrova anche nell'Antico testamento. I salmisti, ha fatto notare Francesco, «tante volte dicono: io voglio conoscere il tuo volto»; e «anche Mosè una volta l'ha detto al Signore». Ma in realtà «non è facile, perché mettersi in cammino significa lasciare tante sicurezze, tante opinioni di come è l'immagine di Dio, e cercarlo». Significa, in altri termini, «lasciare che Dio, la vita, ci metta alla prova», significa «rischiare», perché «soltanto così si può arrivare a conoscere il volto di Dio, l'immagine di Dio: mettendosi in cammino».

Il Papa ha attinto ancora all'Antico testamento per ricordare che «così ha fatto il popolo di Dio, così hanno fatto i profeti». Per esempio «il grande Elia: dopo aver vinto e purificato la fede di Israele, lui sente la minaccia di quella regina e ha paura e non sa cosa fare. Si mette in cammino. E a un certo punto, preferisce morire». Ma Dio «lo chiama, gli dà da mangiare, da bere e dice: continua a camminare». Così Elia «arriva al monte e lì trova Dio». Il suo è stato dunque «un lungo cammino, un cammino penoso, un cammino difficile», ma ci insegna che «chi non si mette in cammino, mai conoscerà l'immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio». È una lezione per tutti noi: «i cristiani seduti, i cristiani quieti — ha affermato il Pontefice — non conosceranno il volto di Dio». Hanno la presunzione di dire: «Dio è così, così...», ma in realtà «non lo conoscono».

Per camminare, invece, «è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo». La stessa cosa, ha spiegato il Pontefice, è successa «a Giobbe che, con la sua prova, ha incominciato a pensare: ma come è Dio, che permette questo a me?». Anche i suoi amici «dopo un grande silenzio di giorni, hanno incominciato a parlare, a discutere con lui». Ma tutto ciò non è stato utile: «con questi argomenti, Giobbe non ha conosciuto Dio». Invece «quando lui si è lasciato interpellare dal Signore nella prova, ha incontrato Dio». E proprio da Giobbe si può ascoltare «quella parola che ci aiuterà tanto in questo cammino di ricerca della nostra identità: "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto"». È questo il cuore della questione secondo Francesco: «l'incontro con Dio» che può avvenire «soltanto mettendosi in cammino».

Certo, ha continuato, «Giobbe si è messo in cammino con una maledizione», addirittura «ha avuto il coraggio di maledire la vita e la sua storia: "Maledetto il giorno che sono nato..."». In effetti, ha riflettuto il Papa, «a volte, nel cammino della vita, non troviamo un senso alle cose». La stessa esperienza è stata vissuta dal profeta Geremia, il quale «dopo essere stato sedotto dal Signore, sente quella maledizione: "Ma perché a me?"». Egli voleva «restarsene seduto tranquillo» e invece «il Signore voleva fargli vedere il suo volto».

Questo vale per ognuno di noi: «per conoscere la nostra identità, conoscere l'immagine di Dio, bisogna mettersi in cammino», essere «inquieti, non quieti». Proprio questo «è cercare il volto di Dio».

Papa Francesco si è quindi riferito anche al passo del Vangelo di Marco (7, 1-13), nel quale «Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino» e che costruisce una sorta di «caricatura di Dio». Ma quella «è una falsa carta d'identità» perché, ha spiegato il Pontefice, «questi non-inquieti hanno fatto tacere l'inquietudine del cuore: dipingono Dio con i comandamenti» ma così facendo «si dimenticano di Dio» per osservare solo «la tradizione degli uomini». E «quando hanno un'insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento». Gesù dice a scribi e farisei che accumulano comandamenti: «Così voi annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte». Proprio questa «è la falsa carta d'identità, quella che possiamo avere senza metterci in cammino, quieti, senza l'inquietudine del cuore».

In proposito il Papa ha messo in evidenza un particolare «curioso»: il Signore infatti «li loda ma li rimprovera dove c'è il punto più dolente. Li loda: "Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione"», ma poi «li rimprovera lì dove è il punto più forte dei comandamenti con il prossimo». Gesù ricorda infatti che Mosè disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte». E prosegue: «Voi invece dite: se uno dichiara al padre o alla madre che "ciò con cui dovrei aiutarti, cioè darti da mangiare, darti da vestire, darti per comprare le medicine, è Korbàn, offerta a Dio", non consentite loro di fare più nulla per il padre e la madre». Così facendo «si lavano le mani con il comandamento più tenero, più forte, l'unico che ha una promessa di benedizione». E così «sono tranquilli, sono quieti, non si mettono in cammino». Questa dunque «è l'immagine di Dio che loro hanno». In realtà il loro è un cammino «fra virgolette»: ossia «un cammino che non cammina, un cammino quieto. Rinnegano i genitori, ma compiono le leggi della tradizione che loro hanno fatto».

Concludendo la sua riflessione il vescovo di Roma ha riproposto il senso dei due testi liturgici come «due carte d'identità». La prima è «quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così», ed è «quella che ci dice: mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio». L'altra invece ci rassicura: «No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio». Da qui l'auspicio che il Signore «dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla terra, dobbiamo cercare».