domenica 18 aprile 2010

E' Morto il Cardinale Spidlik

Ho avuto modo di conoscerlo! Era il 1997,mi ospito per una chiacchierata nella sua stanza nei pressi del Centrro Aletti vicino Santa maria Maggiore.Non posso che ringraziarlo per l'Eternità per quello che mi disse. Mi regalò la preghiera al Sacro Cuore di Gesù di S. Claudio della Colombière. Circa 1 ora con lui che valse come tanti anni con altre .Un uomo di grande spiritualità.Innamorato della Divina Misericordia che gli ha regalato il Dies Natalis cadere proprio in questa settimana!Un abbraccio per sempre Eminenza ,preghi sempre per me!
Il porporato gesuita aveva novant'anni
Il cordoglio del Pontefice per la morte del cardinale Spidlík

Il cardinale gesuita moravo Tomás Spidlík è morto venerdì 16 aprile. Aveva novant'anni. Il Papa, appresa la notizia, ha fatto pervenire un telegramma a padre Adolfo Nicolás Pachón, preposito generale della Compagnia di Gesù.
La pia dipartita del signor cardinale Tomás Spidlík insigne gesuita e zelante servitore del Vangelo ha suscitato viva commozione nel mio animo. Con profonda gratitudine ne ricordo la solida fede la paterna affabilità e l'intensa operosità culturale ed ecclesiale specialmente quale autorevole conoscitore della spiritualità cristiana orientale. Innalzo fervide preghiere al Signore affinché per intercessione della Vergine Santa e di sant'Ignazio di Loyola voglia donare al defunto cardinale il premio eterno promesso ai suoi fedeli discepoli e di cuore invio a lei e alla Compagnia di Gesù come pure a quanti lo hanno conosciuto apprezzandone le doti di mente e di cuore la confortatrice benedizione apostolica.
BENEDICTUS PP.XVI
Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha inviato analogo telegramma di cordoglio.

martedì 13 aprile 2010

Nuovo libro tradotto Di Chesterton


Tradotto per la prima volta integralmente in italiano "The Catholic Church and Conversion" di Gilbert Keith Chesterton
L'architetto della certezza

di Paolo Pegoraro
Gilbert Keith Chesterton aveva 48 anni quando si convertì alla Chiesa di Roma. Il fratello Cecil e alcuni amici erano approdati al cattolicesimo parecchi anni prima; e qualcuno, proprio grazie alle opere di Gilbert. Cosa, allora, lo trattenne così a lungo? Fu, in buona parte, per il debito di gratitudine verso la moglie Frances. Chesterton, racconterà nella sua Autobiografia, si formò in un contesto di rispettabilità atea. Anche i genitori, nonostante l'adesione al culto unitariano, erano scettici nei confronti del soprannaturale. Non che questo potesse impedire al ventenne Gilbert di sperimentare "la solidità oggettiva del peccato": attacchi depressivi, un'ossessione morbosa per l'iconografia del male, compagni di college che negavano la distinzione tra giusto e sbagliato, la deriva spiritistica e l'impiego per alcuni mesi in una casa editrice specializzata in occultismo andavano formando in lui una concezione della vita tutt'altro che attraente. Il biennio 1894-95 fu particolarmente cupo. Chesterton cercò di arginare questa "congestione dell'immaginazione" con la sua peculiare dottrina del ringraziamento, secondo la quale qualsiasi cosa era migliore del nulla. Ai suoi occhi era, però, una palese compensazione: "Chiamavo me stesso ottimista, perché mi trovavo così orribilmente vicino ad essere pessimista". L'aiuto più solido e duraturo per uscire da quella situazione di stallo gli venne dall'esterno: nell'autunno 1896 conobbe la sua futura moglie, Frances Blogg. Fu amore a prima vista. Frances era una fervente anglocattolica e Gilbert le fu eternamente grato per averlo traghettato dall'unitarianesimo alla Chiesa d'Inghilterra. Scoprì così che la sua rabberciata "filosofia del ringraziamento" era già stata sistematizzata in secoli di cristianesimo. Fu grazie a padre John O'Connor, però, che Gilbert conobbe la peculiarità della Chiesa cattolica: era l'unica religione che osasse scendere con lui fino al fondo di se stesso. Il cattolicesimo ne sapeva più di lui non solo intorno al bene, ma perfino intorno al male. E quando, dopo la conversione, gli verrà chiesto perché fosse passato alla Chiesa di Roma, Chesterton risponderà che "non v'è nessun altro sistema religioso che dichiari "veramente" di liberare la gente dai peccati". Il confronto con la Chiesa cattolica si fece più serrato intorno al 1910: Gilbert cominciava a manifestare il desiderio di entrarvi formalmente e suo fratello Cecil compì il passo un paio di anni dopo. A trattenere Gilbert fino al 1922, come egli confidò, fu proprio il timore di ferire profondamente Frances, pregiudicando ai suoi occhi l'anglocattolicesimo come "qualcosa d'insufficiente". D'altra parte, Chesterton covava ancora incertezze dottrinali. Il suo atteggiamento nei confronti della fede era una simpatia prevalentemente sentimentale, come notò Hilaire Belloc. La conversione di una mente prodigiosa come la sua doveva infilarsi in una strettoia necessaria, la consapevolezza di non vivere tra credi tutti uguali in un cosmo indifferente: "Il punto non è davvero cosa un uomo sia costretto a credere, bensì che cosa debba credere; che cosa non può fare a meno di credere". Acquisire sempre maggiore chiarezza gli richiese tempo e studio. Si tuffò negli scritti di John Henry Newman e di san Tommaso d'Aquino. Sulle sue labbra non fu uno slogan affermare che "diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo". Fu una vera fatica intellettuale, che paragonò allo studio di teoremi matematici; quando ne riemerse - sempre secondo Belloc - era "un architetto della certezza". Nel 1922, infine, lacerato tra l'obbligo morale a riconoscere la verità e l'amore per la moglie, Chesterton chiese a padre O'Connor di sondare il terreno. Saputo che Frances ne sarebbe stata sollevata si fece battezzare quattro giorni dopo. Frances lo avrebbe seguito il primo novembre 1926. L'anno seguente sarebbero comparsi The Catholic Church and Conversion e il quarto volume del ciclo di padre Brown, dedicato proprio a padre O'Connor, dove più nettamente il protagonista compare per quello che è: un sacerdote cattolico. La prima opera nella quale Chesterton racconta le ragioni della sua svolta, torna ora nelle mani del lettore italiano - per la prima volta con una traduzione integrale - con il titolo La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento (Torino, Lindau, 2010, pagine 128, euro 13) e una bella prefazione di Marco Sermarini, presidente della Società chestertoniana italiana. Particolarmente interessanti le pagine nelle quali Chesterton descrive le grandi "stagioni esistenziali" della conversione. Dopo aver messo in dubbio i luoghi comuni disseminati da secoli di propaganda e aver constatato sulla base dell'esperienza la verità del cattolicesimo, cominciò per Gilbert la fase "più vera e terribile", quella in cui cercò di sottrarsi alla conversione. In quell'ultimo periodo tutto appariva ristretto, visto come attraverso una feritoia. Eppure, una volta entratovi, Chesterton constatò che "la Chiesa è molto più grande dentro che fuori", niente meno che "un continente" con dentro "tutto, persino le cose che si rivoltano contro". Nella Chiesa di Roma lo scrittore inglese riconobbe l'interezza, opposta a questo o quel singolo dogma cavalcato fino allo sfinimento, e la lungimirante sapienza, che permette all'uomo di sottrarsi a mode intellettuali che si danno il cambio ogni 30 o 40 anni, e si rivelano essere solo vecchi errori. In confronto alla Chiesa di Roma niente gli appariva altrettanto ampio, niente così nuovo e familiare: era come "se un uomo trovasse il suo salotto e il suo focolare nel cuore della Grande Piramide". Dove andrei ora - si chiede infine Chesterton - se abbandonassi la Chiesa cattolica? L'unica alternativa sarebbe stata tornare al paganesimo: fuggire nei boschi gridando "che quella particolare vetta alpina o albero in fiore è sacro e va venerato". (©L'Osservatore Romano - 12-13 aprile 2010)

sabato 10 aprile 2010

L'avvenimento che fonda la nostra fede

La Pasqua di Cristo è l’atto supremo e insuperabile della potenza di Dio. È un evento assolutamente straordinario, il frutto più bello e maturo del "mistero di Dio". È così straordinario, da risultare inenarrabile in quelle sue dimensioni che sfuggono alla nostra umana capacità di conoscenza e di indagine. E, tuttavia, esso è anche un fatto "storico", reale, testimoniato e documentato. È l’avvenimento che fonda tutta la nostra fede

Benedetto XVI all' udienza di Mercoledì

sabato 3 aprile 2010

La medicina dell'immortalità

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana Sabato Santo, 3 aprile 2010


Cari fratelli e sorelle,
un’antica leggenda giudaica tratta dal libro apocrifo “La vita di Adamo ed Eva“ racconta che Adamo, nella sua ultima malattia, avrebbe mandato il figlio Set insieme con Eva nella regione del Paradiso a prendere l’olio della misericordia, per essere unto con questo e così guarito. Dopo tutto il pregare e il piangere dei due in cerca dell’albero della vita, appare l’Arcangelo Michele per dire loro che non avrebbero ottenuto l’olio dell’albero della misericordia e che Adamo sarebbe dovuto morire. In seguito, lettori cristiani hanno aggiunto a questa comunicazione dell’Arcangelo una parola di consolazione. L’Arcangelo avrebbe detto che dopo 5.500 anni sarebbe venuto l’amorevole Re Cristo, il Figlio di Dio, e avrebbe unto con l’olio della sua misericordia tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. “L’olio della misericordia di eternità in eternità sarà dato a quanti dovranno rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo. Allora il Figlio di Dio ricco d’amore, Cristo, discenderà nelle profondità della terra e condurrà tuo padre nel Paradiso, presso l’albero della misericordia”. In questa leggenda diventa visibile tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che ci è stato imposto. Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte: da qualche parte – hanno ripetutamente pensato gli uomini – dovrebbe pur esserci l’erba medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera fatalità – contro la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna. La vera erba medicinale contro la morte dovrebbe essere diversa. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza. Ciò che è nuovo ed emozionante del messaggio cristiano, del Vangelo di Gesù Cristo, era ed è tuttora questo, che ci viene detto: sì, quest’erba medicinale contro la morte, questo vero farmaco dell’immortalità esiste. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo allora viene portata pienamente alla luce.
A questo alcuni, forse molti risponderanno: il messaggio, certo, lo sento, però mi manca la fede. E anche chi vuole credere chiederà: ma è davvero così? Come dobbiamo immaginarcelo? Come si svolge questa trasformazione della vecchia vita, così che si formi in essa la vita nuova che non conosce la morte? Ancora una volta un antico scritto giudaico può aiutarci ad avere un’idea di quel processo misterioso che inizia in noi col Battesimo. Lì si racconta come il progenitore Enoch venne rapito fino al trono di Dio. Ma egli si spaventò di fronte alle gloriose potestà angeliche e, nella sua debolezza umana, non poté contemplare il Volto di Dio. “Allora Dio disse a Michele – così prosegue il libro di Enoch –: ‘Prendi Enoch e togligli le vesti terrene. Ungilo con olio soave e rivestilo con abiti di gloria!’ E Michele mi tolse le mie vesti, mi unse di olio soave, e quest’olio era più di una luce radiosa… Il suo splendore era simile ai raggi del sole. Quando mi guardai, ecco che ero come uno degli esseri gloriosi” (Ph. Rech, Inbild des Kosmos, II 524).
Precisamente questo – l’essere rivestiti col nuovo abito di Dio – avviene nel Battesimo; così ci dice la fede cristiana. Certo, questo cambio delle vesti è un percorso che dura tutta la vita. Ciò che avviene nel Battesimo è l’inizio di un processo che abbraccia tutta la nostra vita – ci rende capaci di eternità, così che nell’abito di luce di Gesù Cristo possiamo apparire al cospetto di Dio e vivere con Lui per sempre.
Nel rito del Battesimo ci sono due elementi in cui questo evento si esprime e diventa visibile anche come esigenza per la nostra ulteriore vita. C’è anzitutto il rito delle rinunce e delle promesse. Nella Chiesa antica, il battezzando si volgeva verso occidente, simbolo delle tenebre, del tramonto del sole, della morte e quindi del dominio del peccato. Il battezzando si volgeva in quella direzione e pronunciava un triplice “no”: al diavolo, alle sue pompe e al peccato. Con la strana parola “pompe”, cioè lo sfarzo del diavolo, si indicava lo splendore dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro, in cui si provava gusto vedendo persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo era il rifiuto di un tipo di cultura che incatenava l’uomo all’adorazione del potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna, alla crudeltà. Era un atto di liberazione dall’imposizione di una forma di vita, che si offriva come piacere e, tuttavia, spingeva verso la distruzione di ciò che nell’uomo sono le sue qualità migliori. Questa rinuncia – con un procedimento meno drammatico – costituisce anche oggi una parte essenziale del Battesimo. In esso leviamo le “vesti vecchie” con le quali non si può stare davanti a Dio. Detto meglio: cominciamo a deporle. Questa rinuncia è, infatti, una promessa in cui diamo la mano a Cristo, affinché Egli ci guidi e ci rivesta. Quali siano le “vesti” che deponiamo, quale sia la promessa che pronunciamo, si rende evidente quando leggiamo, nel quinto capitolo della Lettera ai Galati, che cosa Paolo chiami “opere della carne” – termine che significa precisamente le vesti vecchie da deporre. Paolo le designa così: “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Gal 5,19ss). Sono queste le vesti che deponiamo; sono vesti della morte.
Poi il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente – simbolo della luce, simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo di Cristo. Il battezzando determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel Dio trinitario al quale egli si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce, dell’abito della vita. Paolo chiama queste nuove “vesti” “frutto dello Spirito” e le descrive con le seguenti parole: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).
Nella Chiesa antica, il battezzando veniva poi veramente spogliato delle sue vesti. Egli scendeva nel fonte battesimale e veniva immerso tre volte – un simbolo della morte che esprime tutta la radicalità di tale spogliazione e di tale cambio di veste. Questa vita, che comunque è votata alla morte, il battezzando la consegna alla morte, insieme con Cristo, e da Lui si lascia trascinare e tirare su nella vita nuova che lo trasforma per l’eternità. Poi, risalendo dalle acque battesimali, i neofiti venivano rivestiti con la veste bianca, la veste di luce di Dio, e ricevevano la candela accesa come segno della nuova vita nella luce che Dio stesso aveva accesa in essi. Lo sapevano: avevano ottenuto il farmaco dell’immortalità, che ora, nel momento di ricevere la santa Comunione, prendeva pienamente forma. In essa riceviamo il Corpo del Signore risorto e veniamo, noi stessi, attirati in questo Corpo, così che siamo già custoditi in Colui che ha vinto la morte e ci porta attraverso la morte.
Nel corso dei secoli, i simboli sono diventati più scarsi, ma l’avvenimento essenziale del Battesimo è tuttavia rimasto lo stesso. Esso non è solo un lavacro, ancor meno un’accoglienza un po’ complicata in una nuova associazione. È morte e risurrezione, rinascita alla nuova vita.
Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole. Per questo Paolo può dire ai Filippesi: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!” (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare. La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia: la vera vita. Noi siamo ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Così chiediamo, certi di essere esauditi, con la preghiera sulle offerte che la Chiesa eleva in questa notte: Accogli, Signore, le preghiere del tuo popolo insieme con le offerte sacrificali, perché ciò che con i misteri pasquali ha avuto inizio ci giovi, per opera tua, come medicina per l’eternità. Amen.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

Dalla Croce la Liberazione e la Pace!



VIA CRUCIS AL COLOSSEO

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Palatino
Venerdì Santo, 2 aprile 2010



Cari Fratelli e Sorelle,

in preghiera, con animo raccolto e commosso, abbiamo percorso questa sera il cammino della Croce. Con Gesù siamo saliti al Calvario e abbiamo meditato sulla sua sofferenza, riscoprendo quanto profondo sia l’amore che Egli ha avuto e ha per noi. Ma in questo momento non vogliamo limitarci ad una compassione dettata solo dal nostro debole sentimento; vogliamo piuttosto sentirci partecipi della sofferenza di Gesù, vogliamo accompagnare il nostro Maestro condividendo la sua Passione nella nostra vita, nella vita della Chiesa, per la vita del mondo, poiché sappiamo che proprio nella Croce del Signore, nell’amore senza limiti, che dona tutto se stesso, sta la sorgente della grazia, della liberazione, della pace, della salvezza.

I testi, le meditazioni e le preghiere della Via Crucis ci hanno aiutato a guardare a questo mistero della Passione per apprendere l’immensa lezione di amore che Dio ci ha dato sulla Croce, perché nasca in noi un rinnovato desiderio di convertire il nostro cuore, vivendo ogni giorno lo stesso amore, l’unica forza capace di cambiare il mondo.

Questa sera abbiamo contemplato Gesù nel suo volto pieno di dolore, deriso, oltraggiato, sfigurato dal peccato dell’uomo; domani notte lo contempleremo nel suo volto pieno di gioia, raggiante e luminoso. Da quando Gesù è sceso nel sepolcro, la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza, dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza. Il Venerdì Santo è il giorno della speranza più grande, quella maturata sulla Croce, mentre Gesù muore, mentre esala l’ultimo respiro, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Consegnando la sua esistenza “donata” nelle mani del Padre, Egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita, come il seme nel terreno deve rompersi perché la pianta possa nascere: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Gesù è il chicco di grano che cade nella terra, si spezza, si rompe, muore e per questo può portare frutto. Dal giorno in cui Cristo vi è stato innalzato, la Croce, che appare come il segno dell’abbandono, della solitudine, del fallimento è diventata un nuovo inizio: dalla profondità della morte si innalza la promessa della vita eterna. Sulla Croce brilla già lo splendore vittorioso dell’alba del giorno di Pasqua.

Nel silenzio di questa notte, nel silenzio che avvolge il Sabato Santo, toccati dall’amore sconfinato di Dio, viviamo nell’attesa dell’alba del terzo giorno, l’alba della vittoria dell’Amore di Dio, l’alba della luce che permette agli occhi del cuore di vedere in modo nuovo la vita, le difficoltà, la sofferenza. I nostri insuccessi, le nostre delusioni, le nostre amarezze, che sembrano segnare il crollo di tutto, sono illuminati dalla speranza. L’atto di amore della Croce viene confermato dal Padre e la luce sfolgorante della Risurrezione tutto avvolge e trasforma: dal tradimento può nascere l’amicizia; dal rinnegamento, il perdono; dall’odio, l’amore.

Donaci, Signore, di portare con amore la nostra croce, le nostre croci quotidiane, nella certezza che esse sono illuminate dal fulgore della tua Pasqua. Amen.