martedì 15 dicembre 2009

L'odio non vince mai:Coletta

Dal Sussidiario.net una bellissima intervista alla vedova Coletta



Coletta: la vita civile rinasce dal perdono
Redazione
martedì 15 dicembre 2009



Il fatto grave dell’aggressione a Berlusconi lo hanno condannato tutti: leader di partito, cariche istituzionali, militanti, opinionisti. Chi è stato testimone di periodi ben peggiori della nostra storia lancia l’allarme, evocando gli anni ’70, gli scontri di piazza, la lotta armata. Il frutto di un clima deteriorato che, come ha scritto Mario Mauro su queste pagine, vede nell’avversario politico il nemico da abbattere, con ogni mezzo. Questo accade quando l’ideologia divide le persone, le mette le une contro le altre, si impadronisce del confronto politico e lo deforma. A quel punto non esistono più avversari politici, ma solo nemici. Poco importa che qualcuno li abbia eletti. E la dialettica, in un clima di individualismo esasperato, lascia il posto alla violenza.
La realtà è che le esortazioni alla calma, alla ragionevolezza e alla compostezza politica, che pure si ripetono da mesi, non hanno effetto. Verrebbe quasi da pensare che buona volontà non basta. Lo dice bene Margherita Coletta, vedova del brigadiere dei carabinieri ucciso nell’attentato di Nasiriyah del 2003. «Chi subisce violenza porta con sé il dolore per tutta la vita, chi commette il male, anche se non ne è ancora cosciente, pagherà portandone il peso nel cuore. Solo il bene spezza la catena del male». Buonismo? No. «Solo un Altro - dice Margherita Coletta - può perdonare».
Parole forti, dopo gli ultimi fatti di piazza Duomo a Milano, che vengono dal carcere Due Palazzi di Padova, dove Coletta venerdì scorso ha incontrato un gruppo di detenuti che lavorano dentro le mura del carcere. Un incontro privato e “inattuale” che insegna al paese molto di più sulla vita pubblica di tante esortazioni politicamente corrette al bene comune. Mentre il dolore ci riguarda e ci accompagna tutti, dice Coletta. Sia chi ha subito il male, sia chi lo ha fatto.
«Tra noi non ci sono differenze - dice la vedova ai detenuti -. Conoscete la mia storia, anche voi vivete come me la lontananza dai vostri cari. Il dolore ci unisce, ma Dio è padrone della vita e non lascia che le cose accadano senza motivo». La sua voce è la stessa che la sera di quel tragico giorno, appresa la notizia, aveva commosso il Paese citando un passo del Vangelo davanti alle telecamere del Tg2: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». La voce di una madre che non aveva smesso di credere nel disegno di Dio anche dopo aver perso Paolo, il suo figlio di soli sei anni, malato di leucemia.
Come si può essere liberi in carcere, se si conosce e si accusa il proprio limite originale, e il proprio errore, per lo stesso motivo si può essere prigionieri fuori. E la vita diventa confusione, conflitto e violenza verso l’altro. Alberto, che sta dentro, capisce: «è un’emozione averla qui. Lei, vittima, in un luogo di colpe. Il dolore ci ha unito, la ringrazio perché è una testimonianza del fatto che a questo dolore si possa dare un senso».

Lei ha detto ai detenuti che una nuova vita, a cominciare dal perdono, è possibile. Nel nostro paese la vita politica è dominata dalla violenza e non si sa più ormai cosa fare per uscirne. Che ne pensa?

Ma non è solo questione di politica, perché la violenza è prima dentro di noi. Nel Vangelo il peccato più grave è quello di negare all’altro la possibilità di redimersi. Pensare che una persona non possa cambiare. Queste persone hanno sbagliato e stanno giustamente pagando, ma con l’aiuto di chi gli vuol bene e li fa lavorare, la circostanza dura della prigione sta ridando slancio alla loro vita. Come ho detto a loro, sono i prediletti di Cristo, i loro occhi mi hanno ricordato i bambini di cui parla il Vangelo.

Sentendola parlare sembra che lei non abbia mai odiato.

Se l’odio vincesse, quale sarebbe la differenza tra me e gli assassini di mio marito? Loro sono stati mossi dalla pazzia, o forse dalle minacce e dalle promesse false di un futuro migliore per la loro famiglia. Non possiamo saperlo. Il gesto va condannato, ma li penso sempre con pietà. Se li odiassi a mente lucida sarei peggio di loro.

Quello che le è successo l’ha cambiata?

Sono sempre la stessa, ma ho fatto un cammino. Rispetto a prima ho una consapevolezza e un approccio diverso alla fede e alla vita intera. La fede non cancella la fatica, gli attacchi subiti. Davanti a tutte queste lotte, però, so che Cristo c’è e la vita ha un senso diverso.

Quando le si chiede perché aiuta gli altri, lei risponde parlando di se stessa, del suo limite e del suo bisogno. Non ha mai pensato di aver già dato abbastanza?

Ognuno di noi ha un compito, nessuno nasce per caso e vive solo per se stesso. A volte ovviamente avverto la stanchezza, ma quello che faccio nasce da un’esigenza e non da un progetto. Dio ha fatto in modo che dal dolore nascesse qualcosa di più, che potesse dare speranza agli altri.

Cosa porterà con sé dopo la giornata di oggi?

L’incontro di oggi è stato il più bel regalo di Natale che potessi ricevere. Guardavo i loro occhi e pensavo alla loro vita, a tutto quello che hanno lasciato: le famiglie, i sogni che avevano da ragazzi, ma anche il dolore e la consapevolezza del male che hanno fatto. Chi non ha Cristo come può vivere un tormento del genere? Dopo l’incontro mi sono fermata a parlare con alcuni di loro e mi sono accorta che continuano a tormentarsi. Non si perdonano, non sono in grado di farlo. Ma nessuno di noi è in grado. È solo se un Altro ci perdona che possiamo accettare gli altri e, prima ancora, noi stessi.