lunedì 31 gennaio 2011

Una interessante proposta di dialogo e lavoro!!

CORRIERE DELLA SERA.it

La lettera del presidente del consiglio al corriere

«Piano bipartisan per la crescita»

La proposta di Berlusconi. Offerta a Bersani: agiamo insieme. Il presidente del Consiglio contro le elezioni

diSILVIO BERLUSCONIGentile direttore,
il suo giornale ha meritoriamente rilanciato la discussione sul debito pubblico mostruoso che ci ritroviamo sulle spalle da molti anni, sul suo costo oneroso in termini di interessi annuali a carico dello Stato e sull’ostacolo che questo gravame pone sulla via della crescita economica del Paese. Sono d’accordo con le conclusioni di Dario Di Vico, esposte domenica in un testo analitico molto apprezzabile che parte dalle due proposte di imposta patrimoniale, diversamente articolate, firmate il 22 dicembre e il 26 gennaio da Giuliano Amato e da Pellegrino Capaldo. Vorrei brevemente spiegare perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale, in senso tecnico-finanziario e in senso politico.

Prima di tutto, se l’alternativa fosse tra un prelievo doloroso e una tantum sulla ricchezza privata e una poco credibile azione antidebito da «formichine», un gradualismo pigro e minimalista nei tagli alla spesa pubblica improduttiva e altri pannicelli caldi, staremmo veramente messi male. Ma non è così. L’alternativa è tra una «botta secca», ingiusta e inefficace sul lungo termine, e perciò deprimente per ogni prospettiva di investimento e di intrapresa privata, e la più grande «frustata» al cavallo dell’economia che la storia italiana ricordi. Il debito è una percentuale sul prodotto interno lordo, sulla nostra capacità di produrre ricchezza. Se questa capacità è asfittica o comunque insufficiente, quella percentuale di debito diventa ingombrante a dismisura. Ma se riusciamo a portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni, e i mercati capiscono che quella è la strada imboccata dall’Italia, Paese ancora assai forte, Paese esportatore, Paese che ha una grande riserva di energia, di capitali, di intelligenza e di lavoro a partire dal suo Mezzogiorno e non solo nel suo Nord europeo e altamente competitivo, l’aggressione vincente al debito e al suo costo annuale diventa, da subito, l’innesco di un lungo ciclo virtuoso.

Per fare questo occorre un’economia decisamente più libera, poiché questa è la frustata di cui parlo, in un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro. La «botta secca» è, nonostante i ragionamenti interessanti e le buone intenzioni del professor Amato e del professor Capaldo, una rinuncia statalista, culturalmente reazionaria, ad andare avanti sulla strada liberale. La Germania lo ha fatto questo balzo liberalizzatore e riformatore, lo ha innescato paradossalmente con le riforme del socialdemocratico Gerhard Schröder, poi con il governo di unità nazionale, infine con la guida sicura e illuminata di Angela Merkel. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la locomotiva è ripartita. Noi, specialmente dopo il varo dello storico accordo sulle relazioni sociali di Pomigliano e Mirafiori, possiamo fare altrettanto.

Non mi nascondo il problema della particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico. Ne sono preoccupato come e più del presidente Napolitano. E per questo, dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani.

Lo scopo indiretto ma importantissimo di un piano per la crescita fondato su una frustata al cavallo di un’economia finalmente libera è di portare all’emersione della ricchezza privata nascosta, che è parte di un patrimonio di risparmio e di operosità alla luce del quale, anche secondo le stime di Bruxelles, la nostra situazione debitoria è malignamente rappresentata da quella vistosa percentuale del 118 per cento sul Pil. Prima di mettere sui ceti medi un’imposta patrimoniale che impaurisce e paralizza, un’imposta che peraltro sotto il mio governo non si farà mai, pensiamo a uno scambio virtuoso, maggiore libertà e incentivo fiscale all’investimento contro aumento della base impositiva oggi nascosta. Se a questo aggiungiamo gli effetti positivi, di autonomia e libertà, della grande riforma federalista, si può dire che gli atteggiamenti faziosi, ma anche quelli soltanto malmostosi e scettici, possono essere sconfitti, e l’Italia può dare una scossa ai fattori negativi che gravano sul suo presente, costruendosi un pezzo di futuro.
*presidente del Consiglio

Una testimonianza ed un giudizio sull'Egitto sconvolto


ilsussidiario.net | il quotidiano approfondito

EGITTO/ Farouq: noi islamici manifestiamo contro Mubarak, vero nemico dei cristiani



lunedì 31 gennaio 2011


Migliaia di donne in piazza senza velo, la croce come uno dei simboli della protesta, i manifestanti che hanno cacciato dal corteo i pochi fondamentalisti infiltrati che cercavano di far sentire i loro slogan. E’ il vero volto della rivolta dell’Egitto contro la dittatura di Mubarak, raccontato in esclusiva per Ilsussidiario.net dal professor Wael Farouq. Docente di Arabo all’American University egiziana e vicepresidente del Meeting del Cairo, Farouq è stato contattato dal nostro quotidiano on-line dopo una notte passata in prima linea insieme ai manifestanti di piazza Tahrir, vero cuore della protesta. «Questa è una rivoluzione guidata dalla classe medio-alta che chiede innanzitutto libertà, politica e religiosa – sottolinea Farouq -. I fondamentalisti non si impadroniranno della rivolta, quanto sta accadendo in questi giorni dimostra che il vero nemico della libertà religiosa in Egitto è il regime di Mubarak, che cerca di dividere cristiani e musulmani per controllare il Paese».

Professor Farouq, da chi sono guidate e cosa chiedono le persone che manifestano contro Mubarak?

Molte di queste persone sono scese in strada perché sono affamate. Ma i veri leader della protesta appartengono alla classe medio-alta. Hanno organizzato tutto su Facebook, molti sono studenti dell’American University, dove insegno, e della German University. Con loro ci sono migliaia di professori universitari e anche numerosi magistrati. Ciò che chiedono queste persone è innanzitutto libertà.

Ritiene che Mohammed ElBaradei possa guidare la transizione verso la democrazia?

No. ElBaradei in realtà è molto lontano dalla gente che protesta, non è lui il nostro leader. E lo stesso vale per gli altri politici egiziani. Nessuno di loro ha legami con quanto sta avvenendo in questi giorni. Solo ora che le persone muoiono nelle strade, vengono a offrirci il loro aiuto. La nostra risposta è una sola: «No grazie». I leader di questa rivoluzione vengono dal basso.

Ma è davvero un’insurrezione spontanea, o c’è qualcuno che l’ha fomentata?

Le persone sono scese in strada senza che nessuno dicesse loro di farlo. Posso assicurare che chi ha guidato le proteste non sono stati i Fratelli mussulmani. Vorrei che su questo non ci sia nessun possibile equivoco. Quella che sta avvenendo è una rivoluzione laica. Anche se il governo sta facendo di tutto perché passi il messaggio che dietro ai manifestanti c’è il fondamentalismo islamico. Ma posso testimoniare in prima persona che non è così.

Che cosa ha visto?

Quello cui ho assistito in questi giorni mi ha convinto del fatto che il vero nemico della libertà religiosa in Egitto è il regime di Mubarak. Le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza chiedevano a gran voce l’unità tra cristiani e musulmani. Uno degli slogan, per esempio, era: «Cristiani e musulmani, siamo tutti egiziani». Al contrario, venerdì notte non ho visto un solo Fratello musulmano tra i manifestanti. Una persona a un certo punto ha provato a intonare un loro slogan, «L’Islam è la soluzione», ed è stato subito cacciato dal corteo. Gli altri contestatori hanno commentato la scena con queste parole: «Siamo egiziani, non musulmani». Un cristiano portava con sé una croce, e appena gli altri manifestanti se ne sono accorti, si sono mostrati contenti e lo hanno issato sulle loro spalle tenendolo in alto in segno di apprezzamento. Posso raccontarlo perché lo ho visto con i miei occhi.

In tv si vedevano anche molte donne scese in piazza…

Su 50mila manifestanti in piazza Tahrir, circa 10mila erano donne. Molte di loro non portavano il velo, e nessuna è stata infastidita o discriminata per questo motivo.

Quali sono le riforme di cui l’Egitto ha maggiore necessità?

L’Egitto ha bisogno di libertà politica e di giustizia economica. Le differenze nello stile di vita tra le persone ricche e quelle povere è incredibile. Alcuni egiziani mangiano ogni giorno con le prelibatezze cucinate dagli chef parigini o italiani, e altri sono costretti a raccogliere il cibo dalla spazzatura. Non si può continuare così. Inoltre, da quando sono nato non ho assistito una sola volta a delle elezioni libere. Il voto è soltanto una messa in scena, e lo stesso vale anche per il nostro Parlamento. E non sono io a dirlo, ma una sentenza della magistratura egiziana che ha stabilito che le ultime elezioni non sono avvenute in modo regolare.

Che cosa accadrà nei prossimi giorni?

Le manifestazioni non si fermeranno. Le persone tornano a casa giusto il tempo per cambiarsi il vestito, riposarsi un istante, e poi ritorneranno in piazza. Quello che è nato in questi giorni è un nuovo Egitto, e nulla nel nostro Paese sarà mai più come prima.

Secondo la polizia i manifestanti sono dei violenti…

Non c’è nulla di più falso. Alle 17 di venerdì la polizia si è dileguata dalla capitale, svestendo le uniformi e facendo uscire dalle carceri i criminali comuni per seminare il panico tra la gente. I manifestanti al contrario hanno formato un servizio d’ordine per evitare che fossero commessi dei saccheggi. Anch’io sono rimasto diverse ore davanti al Museo egizio per proteggerlo, insieme a centinaia di altre persone. L’unico incendio appiccato dai manifestanti è stato quello del palazzo del National democratic party, che è il partito di Mubarak.

Qual è la strategia della polizia in questo momento?

Stanno cercando di creare il maggiore scompiglio possibile. Hanno smesso di proteggere le banche e gli altri luoghi sensibili. Il loro obiettivo è incoraggiare i criminali comuni a commettere delitti, come furti e incendi. Diversi saccheggi sono stati organizzati dalla polizia, per fare sì che la società si rivoltasse contro i manifestanti, impaurita per la mancanza di sicurezza nel Paese.

Qual è stata la posizione delle autorità religiose nei confronti della rivolta?

La moschea di Al-Azhar, la più importante istituzione islamica nel Paese, ha chiesto ai musulmani di non manifestare, affermando che sarebbe contrario al Corano: evidentemente, è una bugia. Anche i vertici della Chiesa copta hanno tenuto la stessa posizione, che trovo vergognosa. Eppure, i cristiani si sono riversati nelle strade, come avevano già fatto dopo l’attentato contro la chiesa di Alessandria. Rivelando così una volta per tutte di fare parte a pieno titolo della società egiziana.

Come valuta la posizione di Ue e Usa nei confronti della situazione in Egitto?


Le armi utilizzate dalla polizia per uccidere i manifestanti provengono dagli Stati Uniti. Conservo come «souvenir» una bomba lacrimogena con la scritta «Made in Usa». Ma anche il governo italiano ha aiutato il governo egiziano a uccidere i nostri concittadini.

In che senso scusi?

Quello che chiediamo al governo italiano è di non appoggiare in nessun modo il regime di Mubarak. Perché quando Mubarak cadrà, le relazioni tra Egitto ed Italia smetteranno di essere buone come sono state finora. In Europa del resto nessuno finora ha condannato il regime che c’è nel nostro Paese. E nessuno ha sostenuto il diritto degli egiziani di cambiare governo. E’ questa mancanza di onestà intellettuale da parte dell’Europa ad avere distrutto il dialogo tra Islam e Cristianesimo.

Come si comporterà l’esercito nei confronti dei manifestanti?

Quando l’esercito è sceso nelle vie del Cairo, chi protestava lo ha accolto con i fiori. La gente ha fiducia nell’esercito perché non ha la stessa storia di corruzione della polizia e del governo. Non so ancora con chi decideranno di stare i generali, ma i soldati hanno sempre dimostrato di avere a cuore soprattutto il patriottismo. Gli egiziani nutrono grandi speranze nei confronti del loro esercito.

(Pietro Vernizzi)



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Don Bosco:illuminato profeta dell'Unità d'Italia

La cultura come coscienza e identità di un popolo

Don Bosco l'italiano


di Francesco Motto

Nelle librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni dell'Unità d'Italia. A breve, altri due illustreranno il contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta in un modo certamente non condiviso dal santo di Torino. Sul suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia, dubbio alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la "questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità italiana" volta a presentare "la nostra storia: gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".
Che la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del carattere politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso, letterario, artistico è indubitabile.
Può essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente l'Italia unita. Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di Torino che egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori": l'amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon cristiano"
Nel 1845 pubblica dunque un volume di 400 paginette: la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. In evidenza sono subito due dimensioni: quella religiosa e quella di taglio giovanile e popolare. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell'epoca. Quella di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle pure similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher, di Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico: formare religiosamente i lettori, soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai "fatti più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano", soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i "fatti del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in questione". L'Educatore. Giornale di educazione e di istruzione primaria lo recensiva positivamente, sottolineandone il principio educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore") e apprezzandone il periodare "schietto e facile", "la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.
Non passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde "giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire "un lavoro elegante". I modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il volume è ben accolto dalla critica. Sul citato periodico di pedagogia torinese un maestro scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi: "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono". Tale comprensione è dovuta, a giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura "popolare, ma pura ed italiana".
Potrebbe essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul finire del 1849, avanza richiesta alle autorità scolastiche del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende "pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per l'ammaestramento delle scuole elementari".
La domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente, stante "l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello stile e della esposizione", ma esse vengono compensate dalle "opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali della religione". L'intervento critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però mutare opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso assai commendevole". Evidentemente le esigenze del teologo Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della città non erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco), quotidianamente alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si esprimevano in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964.
Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era richiesta dall'aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855: La storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d'Italia. Questa volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai allenato da un decennio a scrivere. Sono però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei suoi lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di ammaestramenti spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Non se ne rese conto Benedetto Croce 60 anni dopo quando - nonostante il rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza di certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale", mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia. Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti esattamente narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello perseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli affetti". Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di insegnare in prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti. Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se sappiamo che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la lavagna (...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti".
Fu un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di un'opinione pubblica scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria attualità e attesa. Nel lasciare la sala dello spettacolo il celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato: "Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico solidità e concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione: ce ne è a sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e di nuovi mezzi espressivi.
Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro formazione investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antiche dello Stato unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa.



(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

Grazie a Filippo Rizzi che ci offre sul quotidiano Avvenire questa breve sintesi di un grande studioso del monachesimo benedettino.Una grande risorsa per i tempi odierni in cui la esigenza della ricerca di di Dio si fa più impellente.

E Leclercq «scoprì» san Bernardo

«Penso che non potrò ancora viaggiare, se non per il grande viaggio verso Dio. È il tempo di andare a vedere e vederlo. Che il Signore mi dia la forza mentre aspetto la fine». È una delle ultime lettere del monaco benedettino francese Jean Leclercq (1911-1993). Parole che, rilette oggi nel centenario della nascita (il prossimo 31 gennaio), hanno il sapore di un testamento quasi profetico, di un uomo di grande sapienza e distacco da tutto ciò che è mondano nello stile proprio di chi veste l’abito del monaco. Dom Leclercq è un personaggio che ha inciso moltissimo nella cultura cattolica del Novecento, soprattutto per aver regalato al pubblico degli studiosi saggi come Cultura umanistica e desiderio di Dio, (Sansoni 1965) e San Bernardo e lo spirito cisterciense (Qiqajon 1988), per finire con l’autobiografico Di grazia in grazia. Memorie (Jaca Book 1993).

Francese di origine, monaco benedettino dell’abbazia di Clervaux nel Lussemburgo, dopo il compimento degli studi teologici a Roma (Ateneo di Sant’Anselmo) e a Parigi (ove, tra gli altri ebbe come maestro il grande storico della filosofia medievale Étienne Gilson), dom Leclercq poté beneficiare negli anni della sua formazione di un duplice apporto: quello della tradizione benedettina (si pensi solo ai grandi monaci André Wilmart e Anselm Stolz) e quello della grande cultura cattolica francese. «Sarà proprio Gilson, autore de La teologia mistica di San Bernardo – rivela il teologo Inos Biffi – ad ispirare al giovane Leclercq la passione per la letteratura monastica medievale come campo di ricerca».

M<+tondo>a agli occhi di Biffi il grande merito di Leclercq risiede proprio nell’aver realizzato la prima edizione critica dedicata al grande abate di Clairvaux, san Bernardo, e di aver dato attraverso i suoi studi una vera cittadinanza alla teologia monastica: «Grazie a lui e a Gilson c’è stata la riscoperta dei grandi teologi medievali non scolastici. Grazie alla sua penna sono emersi splendidi ritratti di figure, ad esempio, come Pietro di Celle, Giovanni di Fécamp o lo stesso Bernardo di Clairvaux».

L’attualità di Leclercq è stata messa in luce recentemente dallo stesso Benedetto XVI, che in molti interventi ha fatto riferimento agli scritti di questo monaco dai tratti eccezionali: solo per citarne uno su tutti, il discorso pronunciato il 12 settembre 2008 al Collège de Bernardins di Parigi: «In quel frangente – sottolinea il medievista Franco Cardini – il richiamo a Leclercq da parte di Ratzinger serviva ad esortare il Vecchio Continente a riappropriarsi delle sue radici cristiane in cui la ricerca di Dio e cultura della parola fanno tutt’uno, non solo nella teologia ma anche nell’elevazione spirituale.

E fondano la civiltà europea grazie soprattutto ai monasteri benedettini». Lo storico fiorentino tende a evidenziare il grande rigore scientifico di Leclercq, per il quale il mondo accademico dimostra un’ammirazione molto simile a quella riservata al domenicano Marie-Dominique Chenu: «È uno dei grandi nomi della cultura cattolica, come Henri de Lubac o Henri-Irénée Marrou. Storici del calibro di Claudio Leonardi o di scuola più laica come Girolamo Arialdi o Ovidio Capitani si sono inchinati di fronte al suo sapere, riconoscendone la grandezza e la serietà scientifica».

Non è un caso che ancora oggi colpisce l’epistolario del grande benedettino, dove egli si confronta anche su minuziose questioni teologiche o storiche con i grandi contemporanei: da Yves-Marie Congar a Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar, don Giuseppe de Luca e Thomas Merton (senza dimenticare le bellissime lettere intrise di notazioni geografiche alla cara mamma). Una particolare amicizia è quella instaurata col futuro cardinale gesuita de Lubac, che gli dedicherà il primo volume della celebre Exégèse médiévale e spronerà il benedettino a scrivere le sue memorie. «Il suo grande merito – argomenta il discepolo e curatore di molte sue opere, il benedettino sublacense <+nero>Gregorio Penco<+tondo> – è stato quello di indicare nella teologia monastica la diretta continuatrice ed erede della teologia patristica. Prima di lui tutta una tradizione culturale ispirata ai canoni dell’illuminismo aveva rigettato come insignificanti molti scritti di spiritualità monastica, che in seguito, grazie alla sua scrupolosa ricerca, sono apparsi una delle espressioni più alte di una civiltà posta al servizio della fede e della contemplazione di Dio».

Ad impressionare è anche la capacità di Leclercq come conferenziere e divulgatore del carisma benedettino tra i vari monasteri del Pianeta: «Fu definito non a caso "il monaco più viaggiatore della storia" – osserva dom Valerio Cattana già abate di Seregno e tra i curatori in Italia dell’opera omnia di Leclercq –. A chi gli obbiettava che caratteristica chiave del monaco benedettino era la stabilità in un luogo, egli replicava ironicamente di vivere questa virtù "a bordo di un aereo con la sua valigia"». Il monaco olivetano Cattana tende a mettere in luce aspetti meno conosciuti della sterminata bibliografia di Jean Leclercq: «A lui si deve una maggior conoscenza delle grandi figure del monachesimo italiano, si pensi solo a Pier Damiani o a san Romualdo.

Ma interessante è pure notare come egli stesso recepì il Concilio Vaticano II dal punto di vista liturgico; molto ricco il suo bellissimo ritratto su Paolo VI e il monachesimo». Un capitolo del tutto a se stante è l’amicizia intrattenuta col trappista autore del bestseller La Montagna dalle sette balze Thomas Merton.«Il grande monaco del Kentucky – rivela dom Cattana – ha avuto in Leclercq il punto di riferimento per le letture patristiche e medievali.

Essendo un autodidatta geniale, attingeva ai suggerimenti del suo amico benedettino di Clervaux come alla fonte più autorevole a cui abbeverarsi». Padre Penco, già docente di Storia del monachesimo al Sant’Anselmo a Roma, toglie dall’album dei ricordi un aspetto sconosciuto ai più: «Era fiero di essere stato il primo non gesuita a insegnare alla Gregoriana, "questa fortezza della Compagnia", amava ripetere. Ricordo anche come seppe reagire con ironia e spirito di fronte agli studenti comunisti della Normale di Pisa, che contestavano la sua conferenza, con un laconico ma fulminante commento:"Gioventù..."».

L’eredità di dom Leclercq è ancora viva alla luce soprattutto dei suoi studi su san Bernardo, ma anche della testimonianza indelebile e mai sgualcita di vita religiosa: «La sua ultima grande fatica – è la riflessione finale del teologo Inos Biffi – fu la sua presenza nel 1990 al centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux. La sua presenza aveva il valore della testimonianza: ormai pensare a san Bernardo voleva dire pensare a Jean Leclercq... Superata la soglia degli 80 anni non poté più viaggiare, ma alla stregua degli antichi monaci continuò sino alla fine a studiare offrendo i suoi "sguardi" sulla contemplazione di Cristo nel monachesimo medievale. Il suo più grande pregio? Aver reso visibile il "mistero monastico"».
Filippo Rizzi