venerdì 11 febbraio 2011

Chi di noi, da piccolo, non si è svegliato nella notte piangendo, per richiamare l’attenzione dei genitori?

Il perdono è relazione. Non può essere elettronico

Chi di noi, da piccolo, non si è svegliato nella notte piangendo, per richiamare l’attenzione dei genitori? In quel momento nient’altro contava se non le braccia del papà o della mamma che, svegliati di soprassalto, ci prendevano in braccio per consolarci con amore. La paura scompariva solo così. Erano inutili in quel momento tutte le invenzioni che si muovevano intorno a noi, nella culla o nella stanza. Solo l’abbraccio cuore a cuore era capace di farci richiudere gli occhi. Con pazienza. È questa l’immagine che voglio evocare quando vedo la nostra vita quotidiana soggiogata da una virtualità sempre più invadente e proposta come unica soluzione per riempire la solitudine che spesso coincide con la ricerca di senso.

In maniera paradossale vorremmo colmare le distanze con l’altro attraverso uno strumento mediatico, qualunque esso sia, non rendendoci conto che così non facciamo altro che aumentare la ferita che più di ogni altra offende qualunque uomo, e che la Bibbia così denuncia: «Non è bene che l’uomo sia solo». Gli strumenti tecnologici sempre più sofisticati che ci consentono di ridurre le distanze nella comunicazione con gli altri – dal computer al telefonino, perfezionato nella versione <+corsivo_bandiera>smartphone<+tondo_bandiera> – non soddisfano la domanda vera che agita il nostro cuore. E suona falsa, anche per questo, l’idea che ci si possa addirittura confessare attraverso un’applicazione per iPhone, come pure qualcuno ha sostenuto (rintuzzato ieri dal direttore della Sala Stampa vaticana padre Lombardi).

La fatica di Dio è sempre stata questa: andare in cerca dell’uomo, prendersi cura di lui, della sua storia. Non per niente lo chiamiamo il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il nostro è un Dio che viene definito dall’altro. È sempre il Dio della relazione. «Non è un Dio solo, ma un solo Dio», diceva don Tonino Bello. È un Dio, quello rivelato da Gesù, che non ama surrogati dell’uomo, siano essi mascherati da sacrifici e incenso, ma va a cercare la pecora smarrita. Finché non la trova. Poi se la mette in spalla, e torna insieme con lei, pieno di gioia.

La Chiesa gioca proprio in questo campo della fragilità e della debolezza il suo ruolo di maestra in umanità, andando controcorrente e manifestando in ogni situazione la via alternativa dell’incontro personale. In un mondo dove si vuole che l’inizio della vita venga al di fuori di questo "a tu per tu", e la morte è sempre più isolata e regolata nel rapporto tra una macchina e l’individuo, anche tutti i limiti e le fragilità umane rischiano la presunzione di essere risolti virtualmente. Nel sacramento della riconciliazione la Chiesa si mostra come colei che cerca, attende, abbraccia, bacia, fa festa. Perché quello che le sta a cuore è che proprio nel momento della maggiore lontananza dalla pace e dalla felicità l’uomo ritrovi il perdono anzitutto come relazione.

La Chiesa vuole continuare a essere per noi madre, e ci invita instancabilmente a passare dall’io al noi, dall’individualismo all’accoglienza. Come potrebbe fare tutto questo attraverso un computer? Essere guariti è sentirsi amati per quello che siamo: non è frutto di meriti acquisiti, ma il dono gratuito di chi ti ama da sempre. L’amore lo percepiamo nella relazione: come i nostri genitori in quei lontani pianti notturni. Nessuno, neppure i mezzi di comunicazione, può essere delegato a sostituire questa relazione con l’altro.

Quante volte ho vissuto la confessione come quell’incontro tra le due mani del capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina. Una nuova creazione. Mentre ricevo – od offro – il perdono capisco che c’è dell’altro in quel «ti assolvo dai tuoi peccati». C’è tutta la vita nuova di una Chiesa che si prende cura di me, o di chi mi sta di fronte. Che mi spinge a essere anch’io capace di rischiare e assumermi una nuova responsabilità. Nella vita vera. Ogni giorno. Senza nascondermi dietro un iPhone.
Francesco Pierpaoli

L'appartenenza:dono di Cristo

11 febbraio 2011 CHIESA E SOCIETA' Non è più la società dell’appartenenza La crisi del senso di appartenenza è tra gli elementi che stanno minando la società contemporanea. Il dubbio è che questa crisi possa coinvolgere, in un modo o nell’altro, anche la Chiesa. Ma a fugare questo timore, e anzi a ragionare in chiave propositiva e volta al futuro, è stato il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, nella cattedrale di Messina. Di quella prolusione, tenuta il 7 febbraio in occasione della Settimana teologica 2011 della diocesi siciliana, pubblichiamo qui ampi stralci.

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Il tema dell’appartenenza pre­senta carattere di singolare at­tualità, in un tempo dalla cul­tura largamente diffusa – che con un ossimoro definirei – della re­vocabilità permanente di scelte e legami. Nondimeno esso è un te­ma di lunga durata dell’esperien­za umana e della riflessione, che tocca molteplici ambiti dell’esi­stenza personale e della convi­venza sociale, dall’appartenenza civile a una nazione – dal richia­mo spontaneo in questo anno centocinquantesimo dall’unità d’Italia – ma in un mondo globa­lizzato, all’appartenenza eccle­siale in un contesto pluralizzato di culture, credenze, religioni [...].

La questione dell’appartenenza ecclesiale potrebbe sembrare, a tutta prima, piuttosto semplice. Tanto di più, quanto più si è in­clini a considerare la Chiesa alla stregua di una qualunque altra società e a interpretare l’apparte­nenza ecclesiale in chiave esclu­sivamente sociologica. Anche nel­la Chiesa si entrerebbe, così, per libera scelta; e l’appartenenza ad essa sarebbe dovuta, perciò, alla decisione dei singoli di farne par­te. Una determinazione ovvia­mente sempre revocabile, perché saldamente ancorata alla elezio­ne libera di ciascuno; e la cui so­lidità, pertanto, dipenderebbe unicamente dal coinvolgimento dei singoli, dalla loro decisione, dal loro attivo prendervi parte. In altri termini, quella ecclesiale non rappresenterebbe che un caso particolare di una più generale appartenenza societaria. Essa risentirebbe, peraltro e pro­prio per questo, delle stesse di­namiche che contraddistinguono l’appartenenza alle associazioni, ai gruppi o alle società in conte­sto di post-modernità. Qualun­que sia, infatti, il giudizio che si dà del tempo presente, è difficile sfuggire all’impressione che si re­gistri, oggi, una vera e propria cri­si dell’appartenenza o che le ap­partenenze – quando si realizza­no – paiano sempre piuttosto fra­gili e fluttuanti. E tutto ciò sembra avere intrinsecamente a che ve­dere con alcuni tratti caratteriz­zanti l’orizzonte culturale odier­no. È abbastanza evidente che o­gni appartenenza chiara e stabi­le appaia oggi minacciata, se è ve­ro che siamo in epoca di post­modernità; infatti – come affer­ma il noto sociologo polacco Zyg­munt Bauman –, «siamo postmo­derni in quanto le contingenze si contrappongono ad ogni tentati­vo del soggetto di acquisire un’i­dentità fissa, che rimanga tale fi­no alla fine dei suoi giorni. Siamo postmoderni in quanto il mix del­le molteplici identità socialmen­te riconosciute cambia continua­mente con il passare del tempo. Siamo postmoderni poiché […] per il soggetto il processo di co­struzione dell’identità non con­siste tanto nel portare a compi­mento un unico progetto di vita, quanto piuttosto nel mantenere diversi progetti aperti e in fieri nella loro attualizzabilità».

Se questi tratti esprimono qual­cosa del modo di percepirsi e di vivere dei nostri contemporanei, è chiaro che essi denotano una fragilità delle appartenenze. Il fe­nomeno risulta ancora più evi­dente, quando si consideri il ge­nerale discredito in cui versano i­stituzioni sociali le più diverse: e questo per motivi complessi e va­ri, non ultimo il fatto che alla cri­si della ragione moderna pare su­bentrare il 'culto dell’emozione', che dovrebbe rappresentare il cri­terio ultimo di ogni scelta e, dun­que, di ogni appartenenza, oltre che della modalità in cui essa do­vrebbe darsi. Come nota oppor­tunamente Giovanni Ferretti, l’e­poca attuale pare connotata dal­la «sempre più diffusa coscienza, dei diritti degli impulsi e dei sen- timenti in campo etico, fino alla dichiarazione dell’immediatezza dei sentimenti: 'Va’ dove ti porta il cuore', ne hai sempre il diritto! La legge dei liberi sentimenti si è così sostituita alla legge della ra­gione, che vede il vero e il giusto oggettivamente vincolanti. Anche se c’è da chiedersi se veramente i sentimenti siano poi così liberi come spesso si pensa». Tutto questo non può che aggra­vare la fragilità ogni tipo di ap­partenenza. E, nella misura in cui la Chiesa viene considerata alla stregua di qualunque altro gene­re di società, non c’è da stupirsi che l’appartenenza ad essa possa venire letta e interpretata in mo­do analogo.

Può essere sintoma­tico, in tal senso, il giudizio che u­no studioso come Charles Taylor dà della possibilità di apparte­nenza religiosa nell’epoca attua­le, che il noto filosofo canadese definisce dell’autenticità o 'e­spressivista', in quanto ciascuno sente di dovere e poter esprime­re se stesso; un’epoca che, pro­prio per questo, indurrebbe a un tipo di appartenenza religiosa che egli definisce postdurkheimiana, diversa dal genere di apparte­nenze tipiche di epoche passate, da lui invece definite paleo­durkheimiana e neodurkheimiana. Dice esplicitamente Taylor: «Proprio come, nel mon­do neodurkheimiano, l’a­desione a una Chiesa a cui non si credeva appariva non solo sba­gliata ma addirittura assurda, contraddittoria, altrettanto as­surda appare, nell’epoca post­durkheimiana, l’idea di aderire ad una spiritualità che non si pre­senti come la tua via, la via che ti motiva e che ti ispira. […] L’in­giunzione quindi è, per usare le parole a un festival New Age: 'Ac­cettate solo ciò che suona vero al vostro sé interiore'». In altri ter­mini, se in epoche del recente passato l’appartenenza a una 'Chiesa' era dettata da una ade­sione convinta a quella 'Chiesa', dopodiché si accettava tutto quanto in quella confessione re­ligiosa si proponeva di credere, oggi saremmo in un tempo diver­so perché, non solo si intende a­derire liberamente ad una 'Chie­sa', ma si ha la pretesa di decide­re in proprio la spiritualità da ab­bracciare e il percorso da imboc­care per perseguirla. È evidente che, quando si intenda mettere a tema l’ap­partenenza ecclesiale, non si può né si deve troppo superfi­cialmente oltrepassare questo primo livello di considerazione e riflessione. La Chiesa è anche u­na società, al pari di altre comu­nità o società e risente, pertanto, dei 'meccanismi' che caratteriz­zano le altre appartenenze, nelle diverse epoche in cui esse si rea­lizzano.

Ciò può essere peraltro utile a considerare come anche l’appartenenza ecclesiale potreb­be essere percepita e vissuta da taluni, oggi, in maniera fluttuan­te, mai assunta in maniera con­vinta e definitiva, capace di co­niugarsi con altre appartenenze, magari antitetiche. Ciò può esse­re utile, inoltre, a comprendere come l’appartenenza ecclesiale possa anche portare a un atteg­giamento esattamente contrario, ovvero a una appartenenza di ti­po rigido e fanatico, tendenzial­mente esclusiva non solo di altri tipi di appartenenze, ma anche di altri modi in cui, nella stessa Chie­sa, si potrebbe vivere e percepire l’appartenenza. Infatti, fragilità e fluttuazione dell’appartenenza e appartenenza rigida e tenden­zialmente fanatica possono, alla fine, essere le due facce di una stessa medaglia. Nell’epoca della crisi delle identità, dell’espressi­vismo e dell’autenticità, si può vivere un’appartenenza ecclesiale fluida, intermittente e debole op­pure si può affrontare la medesi­ma situazione con l’opzione e­sattamente inversa: quella consi­stente nell’assumere un’apparte­nenza al proprio gruppo eccle­siale, al proprio movimento, alla propria 'esperienza' come se fos­sero l’unica modalità di apparte­nenza possibile per essere Chie­sa; e quella consistente nel trova­re nella Chiesa o in una sua e­spressione un rifugio e una sicu­rezza, tanto più ricercati, quanto più si abita, appunto, una 'società dell’incertezza'.

Ciò che occorre ancora una volta richiamare è che interpretare quella ecclesiale in questi termi­ni significa pensarla al pari di qualunque altra appartenenza, come semplice effetto della scel­ta individuale dei singoli. Cosa in­dubbiamente reale, che va dun­que sempre considerata; ma co­sa, al tempo stesso, parziale e in­capace di far cogliere tutta la sin­golarità dell’appartenenza alla Chiesa [...]. Si è troppo propensi, infatti, a par­lare di libertà come di qualcosa che non solo ci renderebbe giu­stamente autonomi, ma come qualcosa che ci farebbe indipen­denti da tutto e da tutti. In verità, noi siamo autonomi, ma non in­dipendenti. Le nostre libertà so­no sempre inserite in un mondo che ci precede e senza il quale sa­rebbero impossibilitate ad esse­re. Il dinamismo dell’apparte­nenza ecclesiale lo richiama e in un modo singolare: il fatto di es­sere diventati Chiesa rende anco­ra più evidente che siamo dei chiamati e che la nostra adesione libera è, in verità, una risposta li­bera. Si potrebbe rintracciare il punto teologico nevralgico di un tale di­namismo nei termini seguenti: l’appartenenza alla Chiesa non può essere l’auto-produzione del cristiano; essa è dono di Cristo nello Spirito. Ciò a cui mira, però, tale dono è la conformazione del cristiano a Cristo, dunque il ren­derlo libero e attivo, grazie alla partecipazione della libertà e del­l’attività di Cristo, riconducibile all’esserci-per-altri [...]. L’appartenenza ecclesiale non è una realtà statica, bensì struttu­ralmente dinamica. Si diventa, in­fatti, cristiani e si viene ad appar­tenere alla Chiesa in forza dell’a­zione dello Spirito che rende pre­sente Cristo. Essi, a ben conside­rare, sono realtà che dicono l’ir­revocabilità del dono di Dio e, dunque, il fatto che l’apparte­nenza ecclesiale non è cosa che possa essere compromessa in ra­dice, dalle nostre chiusure, dai nostri mutamenti e persino dal nostro peccato [...].

La piena ap­partenenza ecclesiale la si ha, og­gettivamente, là dove è possibile celebrare l’Eucaristia. Lì, in modo pieno, si ha Chiesa; e lì, in modo pieno si ha possibile appartenen­za ecclesiale. Ma questo significa, da parte del cristiano che appar­tiene alla Chiesa, che la sua appartenenza non è qualcosa che può venire data per scontata; è realtà che va alimentata nella continua recezione del dono di Cristo nel suo corpo che, se è ir­revocabile, rimane tuttavia inesauribile. È qualcosa di cui non si può sapere in anticipo, pertanto, tutti i possibili sviluppi, in se stes­si e nella Chiesa di cui si è parte e a cui si appartiene. Q uesto tratto può risultare molto utile a cogliere l’i­stanza di grande attenzio­ne al sentimento che, con tutta la sua mutevolezza, caratte­rizza l’uomo di oggi, anche nelle sue appartenenze: poiché mette in evidenza i mutamenti che real­mente ci possono essere in un cri­stiano. Al contempo, però, per la pazienza che il regolare ritornare settimanale alla recezione del do­no richiede, tale tratto può risul­tare anche educativo e critico rispetto all’idea che l’appartenen­za debba essere misurata solo su quel che 'si sente', senza mai mettere in discussione il fatto che anche i sentimenti chiedono, per essere autenticamente umani, di essere verificati e 'gerarchizzati'. Un secondo aspetto dell’apparte­nenza ecclesiale è il fatto che es­sa non può mai essere settaria, bensì strutturalmente aperta. In­fatti, essa ha la sua sorgente, come mostrato, nell’offerta di Cri­sto. Una offerta che è rivolta a cia­scuno e che intende raggiungere tutti. Questa offerta, dunque, fon­da una appartenenza alla Chiesa, comunità di quanti hanno accol­to questo dono, che non può ve­nire pensata in modo settario e chiuso. Si tratta di una apparte­nenza che, al contrario, impone una attenzione e una prossimità a tutto quanto è umano, poiché non c’è nulla di umano a cui non voglia giungere il dono di Cristo. Anche in tal senso, la singolarità dell’appartenenza ecclesiale può offrirsi come istanza critica ri­spetto a ogni tentativo che po­trebbe darsi, nell’epoca contem­poranea, di cercare nella Chiesa un 'rifugio caldo' e comodo o u­na sorgente di identità che crea, però, steccati e incapacità di dia­logo rispetto a quanti non sono Chiesa.

Infine, non si può non richia­mare il fatto che, dal momen­to che l’appartenenza eccle­siale non è riducibile alla scelta e alla decisione di ciascuno, ma è dovuta al dono di Cristo nello Spi­rito, essa porta insita in sé il ri­chiamo costante proprio alla tra­scendenza di Cristo e al multifor­me modo in cui egli si rende pre­sente nei cristiani e questi si a­prono a Lui. Di conseguenza, nes­suna modalità data potrà mai vantare la pretesa di esaurire l’ap­partenenza ecclesiale. Essa deve sempre essere aperta ad altre mo­dalità; e, d’altro canto, ciascuna è modalità di appartenenza auten­ticamente ecclesiale solo se e nel­la misura in cui è aperta ad altre, non vantando la pretesa di 'ac­caparrare' il dono di Cristo. An­che questo potrebbe essere un tratto particolarmente illumi­nante oggi, dal momento che l’appartenenza ecclesiale potreb­be essere segnata dall’attuale cri­si di identità e potrebbe perciò essere vissuta quale appartenenza dal carattere fanatico e rigido; con tratti di esclusione, non solo verso chi non è cristiano, ma addi­rittura verso chi, cristiano come noi, vive la sua appartenenza ecclesiale in modi diversi dai nostri. Mariano Crociata