domenica 22 febbraio 2009

Ricordiamo Don Gius


Non per un comandamento ma per l'amore di un Altro
Alle prime ore del 22 febbraio 2005 moriva a Milano don Luigi Giussani. Uno dei suoi primi allievi - oggi superiore generale della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - lo ricorda con un volume giunto in questi giorni in libreria (Don Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 165, euro 14). Del libro proponiamo ampi stralci tratti dal capitolo intitolato "La vita come vocazione".
di Massimo Camisasca
Nella sua polemica contro l'intellettualismo, il moralismo, il volontarismo, contro le accentuazioni giansenistiche che avevano allontanato sempre più gli uomini dalla Chiesa, il fondatore di Cl descrive l'uomo cristiano come l'uomo realizzato, protagonista della storia. Tutto in lui è opera di Dio, per questo la strada dei consigli evangelici è un dono realizzato dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Anche queste parole si possono comprendere soltanto in rapporto a Gesù Cristo. Descrivono il suo rapporto col Padre, con gli uomini, con il mondo, con la storia. Giussani vuol far uscire dalla scontatezza questi termini, che sono sulle labbra di tutti i credenti. Togliere le parole dal loro uso abitudinario è sempre stata una delle sue preoccupazioni pedagogiche fondamentali. Perché per esempio ha usato così tanto la parola "Destino"? Perché essa, pur non essendo una parola confessionale, è aperta all'infinito, all'oltre. Nello stesso tempo non è una parola bigotta, scontata, clericale. Per lui verginità, obbedienza e povertà descrivono il vertice dell'umano e ciò a cui tutti gli uomini sono chiamati in un modo o in un altro, all'interno di qualunque storia personale e vocazionale. (...) L'uomo vero, l'uomo realizzato, l'uomo non confinato ai margini della storia, non bigotto, non ridotto nella sua umanità, il laico, direbbero gli intellettuali d'oggi, è per Giussani l'uomo che vive povertà, obbedienza e verginità. Ma c'è un altro paradosso. Mentre don Giussani accoglie da una parte la tradizione della Chiesa, dall'altra la rinnova completamente. (...) Mentre per una gran parte della storia cristiana i consigli evangelici sono la condizione di vita di taluni, per Giussani, come ho detto, essi sono l'ideale a cui tutti sono chiamati. Non solo: per la coscienza diffusa degli uomini, penetrata anche in vasti settori della Chiesa, i consigli evangelici indicano un di meno di umanità. Si fa di tutto per spiegare i limiti dell'obbedienza, si considera sventurata la povertà e una follia impossibile la verginità. Per don Giussani è esattamente l'opposto. Per lui "obbedienza" è seguire ciò che ci attrae, ciò che è ragionevole, ciò in cui il nostro cuore trova il suo compimento. Non si può vivere umanamente se non si ama la propria umanità, ma per questo occorre seguire il disegno di un Altro, perché noi siamo creature. Per Giussani, come per Agostino, amore di sé e donazione coincidono. "La nostra vita, se obbedisce, diventa più grande di quanto sarebbe mai stata, cioè si realizza. L'obbedienza per noi, cioè il seguire il disegno di un Altro, il fare la sua volontà, è ragionevole in un solo caso: deve essere consapevole che in essa sta la riuscita della vita". Per questo Giussani vede nell'amicizia il vertice dell'obbedienza. Dalla meditazione sui consigli evangelici e sulle virtù teologali, in particolare la carità, nasce spontaneamente la riflessione morale: se Dio ci ama così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri (cfr. Prima Lettera di Giovanni, 4, 11). La morale è proprio questa imitazione del Padre. D'altra parte Gesù stesso aveva detto: "Siate perfetti come lo è il Padre vostro" (cfr. Matteo, 5, 48), indicando con queste parole non una misura, impossibile per l'uomo, ma una tensione. La vita morale è un cammino, un cammino verso il Padre. E tutta la sproporzione, tutto il limite umano non è obiezione a questo: "Santità non è non sbagliare", afferma Giussani riprendendo sant'Ambrogio, "ma cercare continuamente di non cadere". Come un bambino che, pur disubbidendo alla mamma, le rimane attaccato e, col tempo, quando diventa più cosciente di questa affezione e dell'amore gratuito della madre, gli rincresce di farle del male e allora cerca di non farlo più. Dall'amore di cui è fatto oggetto nasce nell'uomo lo sforzo morale, dalla coscienza della dignità ontologica di cui lo ha rivestito il Padre sgorga in lui la preghiera alla Madonna perché "ci costringa a rendere il nostro esistere coincidente con il nostro essere". Per una gratitudine, per un amore, non semplicemente per rispettare un comando. Ma se l'amore è Dio stesso (cfr. Prima Lettera di Giovanni, 4, 8), allora "la morale è imitare Dio in questo, è seguire Gesù o imitare il Padre". "Perfetto come il Padre nostro: ma chi è capace? Come raccomandazione è sconsiderata, come raccomandazione produce l'inverso: la paura. Invece c'é il passo parallelo di san Luca che spiega cosa vuol dire: "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre che sta nei cieli''. La perfezione è questa commozione in atto verso il bisogno dell'uomo". Per il fondatore di Cl, come per i grandi della Chiesa, per esempio Agostino e Tommaso, tutta la morale si riconduce all'amore, non è nient'altro che il comandamento di Gesù: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Marco, 12, 31; Matteo, 22, 39). La legge dell'io è una sola: amare, perché Amore è lo stesso nome di Dio. Giussani ha una visione assolutamente positiva della vita morale. Anche per lui essa implica rinunce e sacrifici, ma è definita in primo luogo da ciò che amiamo, non da ciò che non amiamo. Il cambiamento della vita avviene in un possesso sempre più grande che Cristo realizza legandoci sempre più a sé. Adrienne von Speyr ha espresso bene questa stessa tensione: "La santità non consiste nel fatto che l'uomo dà tutto, ma nel fatto che il Signore prende tutto". La perfezione indicata da Gesù ci rivela che la moralità è una traiettoria verso l'infinito. Quanto più Cristo prende possesso della mia vita, tanto più io avverto l'urgenza di donare me stesso. Questa tensione è stata descritta infinite volte (...) (da Giussani, ndr) ma soprattutto nei capitoli di un volumetto pubblicato dalla Jaca Book nel 1990 e significativamente intitolato Moralità: memoria e desiderio. Qui la moralità è identificata alla santità. Il santo per Giussani è un uomo che aderisce a Dio dentro la sua umanità che rimane tale, eppure diventa diversa. Rimangono in lui tanti limiti, tanti difetti, tanti peccati, ma essi non lo definiscono più, è abitato da un Altro, ha una nuova coscienza di sé. È questo che rende possibile anche il sacrificio. Fa impressione veder tornare in Giussani molte volte parole come sacrificio e mortificazione. A prima vista sembrano contraddire la sua positività, la sua esaltazione della vita. Ma egli sa benissimo che senza sacrificio non c'è vita, che senza mortificazione non c'è cammino in avanti. Conosce troppo bene il peccato originale e le sue conseguenze per non sapere che vivere è seguire uno che ci rende capaci di bene e in tale sequela opera il nostro cambiamento. "Ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; è la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo". Egli "non rinuncia a qualcosa per Cristo, ma vuole Cristo. vuole l'avvenimento di Cristo in modo tale che la sua vita ne venga permeata". La moralità dunque è l'adesione a una presenza, alla vita di Gesù che diventa familiare per noi nella vita della Chiesa. "L'immanenza di sé al mistero comunionale... fa penetrare... l'essere personale di una misura e di una sensibilità nuove... e rende possibile... una nuova gioia... che rende la speranza capace di motivi "contro ogni speranza"".
(©L'Osservatore Romano - 22 febbraio 2009)