lunedì 31 gennaio 2011

Una interessante proposta di dialogo e lavoro!!

CORRIERE DELLA SERA.it

La lettera del presidente del consiglio al corriere

«Piano bipartisan per la crescita»

La proposta di Berlusconi. Offerta a Bersani: agiamo insieme. Il presidente del Consiglio contro le elezioni

diSILVIO BERLUSCONIGentile direttore,
il suo giornale ha meritoriamente rilanciato la discussione sul debito pubblico mostruoso che ci ritroviamo sulle spalle da molti anni, sul suo costo oneroso in termini di interessi annuali a carico dello Stato e sull’ostacolo che questo gravame pone sulla via della crescita economica del Paese. Sono d’accordo con le conclusioni di Dario Di Vico, esposte domenica in un testo analitico molto apprezzabile che parte dalle due proposte di imposta patrimoniale, diversamente articolate, firmate il 22 dicembre e il 26 gennaio da Giuliano Amato e da Pellegrino Capaldo. Vorrei brevemente spiegare perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale, in senso tecnico-finanziario e in senso politico.

Prima di tutto, se l’alternativa fosse tra un prelievo doloroso e una tantum sulla ricchezza privata e una poco credibile azione antidebito da «formichine», un gradualismo pigro e minimalista nei tagli alla spesa pubblica improduttiva e altri pannicelli caldi, staremmo veramente messi male. Ma non è così. L’alternativa è tra una «botta secca», ingiusta e inefficace sul lungo termine, e perciò deprimente per ogni prospettiva di investimento e di intrapresa privata, e la più grande «frustata» al cavallo dell’economia che la storia italiana ricordi. Il debito è una percentuale sul prodotto interno lordo, sulla nostra capacità di produrre ricchezza. Se questa capacità è asfittica o comunque insufficiente, quella percentuale di debito diventa ingombrante a dismisura. Ma se riusciamo a portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni, e i mercati capiscono che quella è la strada imboccata dall’Italia, Paese ancora assai forte, Paese esportatore, Paese che ha una grande riserva di energia, di capitali, di intelligenza e di lavoro a partire dal suo Mezzogiorno e non solo nel suo Nord europeo e altamente competitivo, l’aggressione vincente al debito e al suo costo annuale diventa, da subito, l’innesco di un lungo ciclo virtuoso.

Per fare questo occorre un’economia decisamente più libera, poiché questa è la frustata di cui parlo, in un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro. La «botta secca» è, nonostante i ragionamenti interessanti e le buone intenzioni del professor Amato e del professor Capaldo, una rinuncia statalista, culturalmente reazionaria, ad andare avanti sulla strada liberale. La Germania lo ha fatto questo balzo liberalizzatore e riformatore, lo ha innescato paradossalmente con le riforme del socialdemocratico Gerhard Schröder, poi con il governo di unità nazionale, infine con la guida sicura e illuminata di Angela Merkel. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la locomotiva è ripartita. Noi, specialmente dopo il varo dello storico accordo sulle relazioni sociali di Pomigliano e Mirafiori, possiamo fare altrettanto.

Non mi nascondo il problema della particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico. Ne sono preoccupato come e più del presidente Napolitano. E per questo, dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani.

Lo scopo indiretto ma importantissimo di un piano per la crescita fondato su una frustata al cavallo di un’economia finalmente libera è di portare all’emersione della ricchezza privata nascosta, che è parte di un patrimonio di risparmio e di operosità alla luce del quale, anche secondo le stime di Bruxelles, la nostra situazione debitoria è malignamente rappresentata da quella vistosa percentuale del 118 per cento sul Pil. Prima di mettere sui ceti medi un’imposta patrimoniale che impaurisce e paralizza, un’imposta che peraltro sotto il mio governo non si farà mai, pensiamo a uno scambio virtuoso, maggiore libertà e incentivo fiscale all’investimento contro aumento della base impositiva oggi nascosta. Se a questo aggiungiamo gli effetti positivi, di autonomia e libertà, della grande riforma federalista, si può dire che gli atteggiamenti faziosi, ma anche quelli soltanto malmostosi e scettici, possono essere sconfitti, e l’Italia può dare una scossa ai fattori negativi che gravano sul suo presente, costruendosi un pezzo di futuro.
*presidente del Consiglio

Una testimonianza ed un giudizio sull'Egitto sconvolto


ilsussidiario.net | il quotidiano approfondito

EGITTO/ Farouq: noi islamici manifestiamo contro Mubarak, vero nemico dei cristiani



lunedì 31 gennaio 2011


Migliaia di donne in piazza senza velo, la croce come uno dei simboli della protesta, i manifestanti che hanno cacciato dal corteo i pochi fondamentalisti infiltrati che cercavano di far sentire i loro slogan. E’ il vero volto della rivolta dell’Egitto contro la dittatura di Mubarak, raccontato in esclusiva per Ilsussidiario.net dal professor Wael Farouq. Docente di Arabo all’American University egiziana e vicepresidente del Meeting del Cairo, Farouq è stato contattato dal nostro quotidiano on-line dopo una notte passata in prima linea insieme ai manifestanti di piazza Tahrir, vero cuore della protesta. «Questa è una rivoluzione guidata dalla classe medio-alta che chiede innanzitutto libertà, politica e religiosa – sottolinea Farouq -. I fondamentalisti non si impadroniranno della rivolta, quanto sta accadendo in questi giorni dimostra che il vero nemico della libertà religiosa in Egitto è il regime di Mubarak, che cerca di dividere cristiani e musulmani per controllare il Paese».

Professor Farouq, da chi sono guidate e cosa chiedono le persone che manifestano contro Mubarak?

Molte di queste persone sono scese in strada perché sono affamate. Ma i veri leader della protesta appartengono alla classe medio-alta. Hanno organizzato tutto su Facebook, molti sono studenti dell’American University, dove insegno, e della German University. Con loro ci sono migliaia di professori universitari e anche numerosi magistrati. Ciò che chiedono queste persone è innanzitutto libertà.

Ritiene che Mohammed ElBaradei possa guidare la transizione verso la democrazia?

No. ElBaradei in realtà è molto lontano dalla gente che protesta, non è lui il nostro leader. E lo stesso vale per gli altri politici egiziani. Nessuno di loro ha legami con quanto sta avvenendo in questi giorni. Solo ora che le persone muoiono nelle strade, vengono a offrirci il loro aiuto. La nostra risposta è una sola: «No grazie». I leader di questa rivoluzione vengono dal basso.

Ma è davvero un’insurrezione spontanea, o c’è qualcuno che l’ha fomentata?

Le persone sono scese in strada senza che nessuno dicesse loro di farlo. Posso assicurare che chi ha guidato le proteste non sono stati i Fratelli mussulmani. Vorrei che su questo non ci sia nessun possibile equivoco. Quella che sta avvenendo è una rivoluzione laica. Anche se il governo sta facendo di tutto perché passi il messaggio che dietro ai manifestanti c’è il fondamentalismo islamico. Ma posso testimoniare in prima persona che non è così.

Che cosa ha visto?

Quello cui ho assistito in questi giorni mi ha convinto del fatto che il vero nemico della libertà religiosa in Egitto è il regime di Mubarak. Le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza chiedevano a gran voce l’unità tra cristiani e musulmani. Uno degli slogan, per esempio, era: «Cristiani e musulmani, siamo tutti egiziani». Al contrario, venerdì notte non ho visto un solo Fratello musulmano tra i manifestanti. Una persona a un certo punto ha provato a intonare un loro slogan, «L’Islam è la soluzione», ed è stato subito cacciato dal corteo. Gli altri contestatori hanno commentato la scena con queste parole: «Siamo egiziani, non musulmani». Un cristiano portava con sé una croce, e appena gli altri manifestanti se ne sono accorti, si sono mostrati contenti e lo hanno issato sulle loro spalle tenendolo in alto in segno di apprezzamento. Posso raccontarlo perché lo ho visto con i miei occhi.

In tv si vedevano anche molte donne scese in piazza…

Su 50mila manifestanti in piazza Tahrir, circa 10mila erano donne. Molte di loro non portavano il velo, e nessuna è stata infastidita o discriminata per questo motivo.

Quali sono le riforme di cui l’Egitto ha maggiore necessità?

L’Egitto ha bisogno di libertà politica e di giustizia economica. Le differenze nello stile di vita tra le persone ricche e quelle povere è incredibile. Alcuni egiziani mangiano ogni giorno con le prelibatezze cucinate dagli chef parigini o italiani, e altri sono costretti a raccogliere il cibo dalla spazzatura. Non si può continuare così. Inoltre, da quando sono nato non ho assistito una sola volta a delle elezioni libere. Il voto è soltanto una messa in scena, e lo stesso vale anche per il nostro Parlamento. E non sono io a dirlo, ma una sentenza della magistratura egiziana che ha stabilito che le ultime elezioni non sono avvenute in modo regolare.

Che cosa accadrà nei prossimi giorni?

Le manifestazioni non si fermeranno. Le persone tornano a casa giusto il tempo per cambiarsi il vestito, riposarsi un istante, e poi ritorneranno in piazza. Quello che è nato in questi giorni è un nuovo Egitto, e nulla nel nostro Paese sarà mai più come prima.

Secondo la polizia i manifestanti sono dei violenti…

Non c’è nulla di più falso. Alle 17 di venerdì la polizia si è dileguata dalla capitale, svestendo le uniformi e facendo uscire dalle carceri i criminali comuni per seminare il panico tra la gente. I manifestanti al contrario hanno formato un servizio d’ordine per evitare che fossero commessi dei saccheggi. Anch’io sono rimasto diverse ore davanti al Museo egizio per proteggerlo, insieme a centinaia di altre persone. L’unico incendio appiccato dai manifestanti è stato quello del palazzo del National democratic party, che è il partito di Mubarak.

Qual è la strategia della polizia in questo momento?

Stanno cercando di creare il maggiore scompiglio possibile. Hanno smesso di proteggere le banche e gli altri luoghi sensibili. Il loro obiettivo è incoraggiare i criminali comuni a commettere delitti, come furti e incendi. Diversi saccheggi sono stati organizzati dalla polizia, per fare sì che la società si rivoltasse contro i manifestanti, impaurita per la mancanza di sicurezza nel Paese.

Qual è stata la posizione delle autorità religiose nei confronti della rivolta?

La moschea di Al-Azhar, la più importante istituzione islamica nel Paese, ha chiesto ai musulmani di non manifestare, affermando che sarebbe contrario al Corano: evidentemente, è una bugia. Anche i vertici della Chiesa copta hanno tenuto la stessa posizione, che trovo vergognosa. Eppure, i cristiani si sono riversati nelle strade, come avevano già fatto dopo l’attentato contro la chiesa di Alessandria. Rivelando così una volta per tutte di fare parte a pieno titolo della società egiziana.

Come valuta la posizione di Ue e Usa nei confronti della situazione in Egitto?


Le armi utilizzate dalla polizia per uccidere i manifestanti provengono dagli Stati Uniti. Conservo come «souvenir» una bomba lacrimogena con la scritta «Made in Usa». Ma anche il governo italiano ha aiutato il governo egiziano a uccidere i nostri concittadini.

In che senso scusi?

Quello che chiediamo al governo italiano è di non appoggiare in nessun modo il regime di Mubarak. Perché quando Mubarak cadrà, le relazioni tra Egitto ed Italia smetteranno di essere buone come sono state finora. In Europa del resto nessuno finora ha condannato il regime che c’è nel nostro Paese. E nessuno ha sostenuto il diritto degli egiziani di cambiare governo. E’ questa mancanza di onestà intellettuale da parte dell’Europa ad avere distrutto il dialogo tra Islam e Cristianesimo.

Come si comporterà l’esercito nei confronti dei manifestanti?

Quando l’esercito è sceso nelle vie del Cairo, chi protestava lo ha accolto con i fiori. La gente ha fiducia nell’esercito perché non ha la stessa storia di corruzione della polizia e del governo. Non so ancora con chi decideranno di stare i generali, ma i soldati hanno sempre dimostrato di avere a cuore soprattutto il patriottismo. Gli egiziani nutrono grandi speranze nei confronti del loro esercito.

(Pietro Vernizzi)



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Don Bosco:illuminato profeta dell'Unità d'Italia

La cultura come coscienza e identità di un popolo

Don Bosco l'italiano


di Francesco Motto

Nelle librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni dell'Unità d'Italia. A breve, altri due illustreranno il contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta in un modo certamente non condiviso dal santo di Torino. Sul suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia, dubbio alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la "questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità italiana" volta a presentare "la nostra storia: gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".
Che la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del carattere politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso, letterario, artistico è indubitabile.
Può essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente l'Italia unita. Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di Torino che egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori": l'amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon cristiano"
Nel 1845 pubblica dunque un volume di 400 paginette: la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. In evidenza sono subito due dimensioni: quella religiosa e quella di taglio giovanile e popolare. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell'epoca. Quella di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle pure similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher, di Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico: formare religiosamente i lettori, soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai "fatti più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano", soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i "fatti del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in questione". L'Educatore. Giornale di educazione e di istruzione primaria lo recensiva positivamente, sottolineandone il principio educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore") e apprezzandone il periodare "schietto e facile", "la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.
Non passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde "giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire "un lavoro elegante". I modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il volume è ben accolto dalla critica. Sul citato periodico di pedagogia torinese un maestro scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi: "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono". Tale comprensione è dovuta, a giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura "popolare, ma pura ed italiana".
Potrebbe essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul finire del 1849, avanza richiesta alle autorità scolastiche del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende "pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per l'ammaestramento delle scuole elementari".
La domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente, stante "l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello stile e della esposizione", ma esse vengono compensate dalle "opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali della religione". L'intervento critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però mutare opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso assai commendevole". Evidentemente le esigenze del teologo Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della città non erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco), quotidianamente alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si esprimevano in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964.
Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era richiesta dall'aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855: La storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d'Italia. Questa volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai allenato da un decennio a scrivere. Sono però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei suoi lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di ammaestramenti spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Non se ne rese conto Benedetto Croce 60 anni dopo quando - nonostante il rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza di certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale", mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia. Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti esattamente narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello perseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli affetti". Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di insegnare in prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti. Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se sappiamo che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la lavagna (...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti".
Fu un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di un'opinione pubblica scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria attualità e attesa. Nel lasciare la sala dello spettacolo il celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato: "Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico solidità e concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione: ce ne è a sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e di nuovi mezzi espressivi.
Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro formazione investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antiche dello Stato unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa.



(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

Grazie a Filippo Rizzi che ci offre sul quotidiano Avvenire questa breve sintesi di un grande studioso del monachesimo benedettino.Una grande risorsa per i tempi odierni in cui la esigenza della ricerca di di Dio si fa più impellente.

E Leclercq «scoprì» san Bernardo

«Penso che non potrò ancora viaggiare, se non per il grande viaggio verso Dio. È il tempo di andare a vedere e vederlo. Che il Signore mi dia la forza mentre aspetto la fine». È una delle ultime lettere del monaco benedettino francese Jean Leclercq (1911-1993). Parole che, rilette oggi nel centenario della nascita (il prossimo 31 gennaio), hanno il sapore di un testamento quasi profetico, di un uomo di grande sapienza e distacco da tutto ciò che è mondano nello stile proprio di chi veste l’abito del monaco. Dom Leclercq è un personaggio che ha inciso moltissimo nella cultura cattolica del Novecento, soprattutto per aver regalato al pubblico degli studiosi saggi come Cultura umanistica e desiderio di Dio, (Sansoni 1965) e San Bernardo e lo spirito cisterciense (Qiqajon 1988), per finire con l’autobiografico Di grazia in grazia. Memorie (Jaca Book 1993).

Francese di origine, monaco benedettino dell’abbazia di Clervaux nel Lussemburgo, dopo il compimento degli studi teologici a Roma (Ateneo di Sant’Anselmo) e a Parigi (ove, tra gli altri ebbe come maestro il grande storico della filosofia medievale Étienne Gilson), dom Leclercq poté beneficiare negli anni della sua formazione di un duplice apporto: quello della tradizione benedettina (si pensi solo ai grandi monaci André Wilmart e Anselm Stolz) e quello della grande cultura cattolica francese. «Sarà proprio Gilson, autore de La teologia mistica di San Bernardo – rivela il teologo Inos Biffi – ad ispirare al giovane Leclercq la passione per la letteratura monastica medievale come campo di ricerca».

M<+tondo>a agli occhi di Biffi il grande merito di Leclercq risiede proprio nell’aver realizzato la prima edizione critica dedicata al grande abate di Clairvaux, san Bernardo, e di aver dato attraverso i suoi studi una vera cittadinanza alla teologia monastica: «Grazie a lui e a Gilson c’è stata la riscoperta dei grandi teologi medievali non scolastici. Grazie alla sua penna sono emersi splendidi ritratti di figure, ad esempio, come Pietro di Celle, Giovanni di Fécamp o lo stesso Bernardo di Clairvaux».

L’attualità di Leclercq è stata messa in luce recentemente dallo stesso Benedetto XVI, che in molti interventi ha fatto riferimento agli scritti di questo monaco dai tratti eccezionali: solo per citarne uno su tutti, il discorso pronunciato il 12 settembre 2008 al Collège de Bernardins di Parigi: «In quel frangente – sottolinea il medievista Franco Cardini – il richiamo a Leclercq da parte di Ratzinger serviva ad esortare il Vecchio Continente a riappropriarsi delle sue radici cristiane in cui la ricerca di Dio e cultura della parola fanno tutt’uno, non solo nella teologia ma anche nell’elevazione spirituale.

E fondano la civiltà europea grazie soprattutto ai monasteri benedettini». Lo storico fiorentino tende a evidenziare il grande rigore scientifico di Leclercq, per il quale il mondo accademico dimostra un’ammirazione molto simile a quella riservata al domenicano Marie-Dominique Chenu: «È uno dei grandi nomi della cultura cattolica, come Henri de Lubac o Henri-Irénée Marrou. Storici del calibro di Claudio Leonardi o di scuola più laica come Girolamo Arialdi o Ovidio Capitani si sono inchinati di fronte al suo sapere, riconoscendone la grandezza e la serietà scientifica».

Non è un caso che ancora oggi colpisce l’epistolario del grande benedettino, dove egli si confronta anche su minuziose questioni teologiche o storiche con i grandi contemporanei: da Yves-Marie Congar a Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar, don Giuseppe de Luca e Thomas Merton (senza dimenticare le bellissime lettere intrise di notazioni geografiche alla cara mamma). Una particolare amicizia è quella instaurata col futuro cardinale gesuita de Lubac, che gli dedicherà il primo volume della celebre Exégèse médiévale e spronerà il benedettino a scrivere le sue memorie. «Il suo grande merito – argomenta il discepolo e curatore di molte sue opere, il benedettino sublacense <+nero>Gregorio Penco<+tondo> – è stato quello di indicare nella teologia monastica la diretta continuatrice ed erede della teologia patristica. Prima di lui tutta una tradizione culturale ispirata ai canoni dell’illuminismo aveva rigettato come insignificanti molti scritti di spiritualità monastica, che in seguito, grazie alla sua scrupolosa ricerca, sono apparsi una delle espressioni più alte di una civiltà posta al servizio della fede e della contemplazione di Dio».

Ad impressionare è anche la capacità di Leclercq come conferenziere e divulgatore del carisma benedettino tra i vari monasteri del Pianeta: «Fu definito non a caso "il monaco più viaggiatore della storia" – osserva dom Valerio Cattana già abate di Seregno e tra i curatori in Italia dell’opera omnia di Leclercq –. A chi gli obbiettava che caratteristica chiave del monaco benedettino era la stabilità in un luogo, egli replicava ironicamente di vivere questa virtù "a bordo di un aereo con la sua valigia"». Il monaco olivetano Cattana tende a mettere in luce aspetti meno conosciuti della sterminata bibliografia di Jean Leclercq: «A lui si deve una maggior conoscenza delle grandi figure del monachesimo italiano, si pensi solo a Pier Damiani o a san Romualdo.

Ma interessante è pure notare come egli stesso recepì il Concilio Vaticano II dal punto di vista liturgico; molto ricco il suo bellissimo ritratto su Paolo VI e il monachesimo». Un capitolo del tutto a se stante è l’amicizia intrattenuta col trappista autore del bestseller La Montagna dalle sette balze Thomas Merton.«Il grande monaco del Kentucky – rivela dom Cattana – ha avuto in Leclercq il punto di riferimento per le letture patristiche e medievali.

Essendo un autodidatta geniale, attingeva ai suggerimenti del suo amico benedettino di Clervaux come alla fonte più autorevole a cui abbeverarsi». Padre Penco, già docente di Storia del monachesimo al Sant’Anselmo a Roma, toglie dall’album dei ricordi un aspetto sconosciuto ai più: «Era fiero di essere stato il primo non gesuita a insegnare alla Gregoriana, "questa fortezza della Compagnia", amava ripetere. Ricordo anche come seppe reagire con ironia e spirito di fronte agli studenti comunisti della Normale di Pisa, che contestavano la sua conferenza, con un laconico ma fulminante commento:"Gioventù..."».

L’eredità di dom Leclercq è ancora viva alla luce soprattutto dei suoi studi su san Bernardo, ma anche della testimonianza indelebile e mai sgualcita di vita religiosa: «La sua ultima grande fatica – è la riflessione finale del teologo Inos Biffi – fu la sua presenza nel 1990 al centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux. La sua presenza aveva il valore della testimonianza: ormai pensare a san Bernardo voleva dire pensare a Jean Leclercq... Superata la soglia degli 80 anni non poté più viaggiare, ma alla stregua degli antichi monaci continuò sino alla fine a studiare offrendo i suoi "sguardi" sulla contemplazione di Cristo nel monachesimo medievale. Il suo più grande pregio? Aver reso visibile il "mistero monastico"».
Filippo Rizzi

domenica 30 gennaio 2011

è necessario fermarsi – tutti – in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi opportune».

Ci viene da pensare come davvero la Medialità abbia assunto poteri impressionanti.
Tutto ciò è consentito da una debolezza di cocienza che sta assumendo sempre più i caratteri di Emergenza Educativa

Ci colpisce questo articolo per il richiamo alla decadenza dell'impero romano.
Davvero questa analogia era tra l'altro uno dei messaggi profetici,come visione complessiva di questa realtà,dell'inizio del pontificato di Benedetto XVI.
Il suo nome e il richiamo ai contenuti essenziali del fatto cristiano, così come il suo ripercorrere le figure dei santi della storia della Chiesa dimostrano questo .

La debolezza etica di tutti e nessuno escluso è sintomo di una visione parziale e si associa ad una scarsità di orizzonti dove nessuno ha possibilità di poter vincere .

L'unica speranza che si staglia su questo desolante scenario è quello di una Chiesa forte del suo Papa e dei suoi vescovi in comunione con lui.
Allora come nella Roma antica di s. Agostino risuona il richiamo e l'appello alla preoccupazione educativa nel saper riguardare la realtà e la vita con occhi semplici

I due criteri che la Chiesa ricorda sono quelli del Bene comune e della sua stessa Libertà ad esistere-Libertas Ecclesiae.
Attraverso la purificazione della ragione da parte del Suo insegnamento ha intensione di chiarirci la differenza tra Peccato e Reato per la quale nessuno sarebbe degno senza l'avvenimento di Cristo di fare qualcosa.

Sotto questo auspicio di riprendere con la Chiesa e nella Chiesa questa consapevolezza incominciamo un nuovo cammino di riconversione dello sguardo ad una semplicità analoga a quella del bambino , aperto e capace di ricevere ciò che di buono arriva dalla vita.
ilsussidiario.net | il quotidiano approfondito

BAGNASCO/ 2. Non sarà mai il moralismo a renderci migliori



venerdì 28 gennaio 2011


Riceviamo e pubblichiamo l'intervento di Oscar Pini a commento della recente prolusione del presidente dei vescovi italiani, card. Angelo Bagnasco, sulla difficile situazione del paese.

Riguardo ai fatti che da vari giorni occupano le prime pagine dei giornali e che coinvolgono il premier del nostro governo, la confusione è almeno proporzionale alla quantità di notizie erogate. Il bombardamento mediatico tende a sollecitare le corde più viscerali e istintive del popolo italiano, somministrando succulenti pezzi di vite private e chiedendo soltanto, come nei vecchi circhi imperiali, che si ruoti il pollice in su o in giù, senza troppe domande, senza giudicare la sensatezza della questione posta, senza ficcare il naso nei criteri tacitamente fatti valere.

A tali fatti si è riferito il cardinale Bagnasco, nella sua prolusione di lunedì. Ha parlato di «debolezza etica» e di «stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza» e ha, insieme, con esemplare coraggio, denunciato «l’ingente mole di strumenti di indagini», in una situazione in cui «i poteri si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni», con la conseguenza che «l’equilibrio» e «l’immagine generale del Paese» risultano gravemente minacciati.

Comunque si chiariranno le cose, da una simile situazione «nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi e per ritenersi vincitore»; anzi vi è il pericolo reale che si producano «segni anche profondi, se non vere e proprie ferite» nell’animo collettivo, che «si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi», realizzando con ciò «un attentato grave alla coesione sociale» del Paese, inquinando il terreno in cui vive. Perciò «è necessario fermarsi – tutti – in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi opportune».

Se questa presa di posizione è significativamente diversa da tutte le altre, e stupisce per equilibrio e lucidità, è perché in essa è all’opera un altro criterio (il grande assente di quasi tutte le discussioni attuali), che la Chiesa ha sempre usato per giudicare la politica e i politici: il bene comune, prima e più che l’ineccepibilità morale del singolo, fatta salva ovviamente la differenza tra peccato e reato.

Il servizio al bene comune (che è, attenzione, il bene di tutti e di ciascuno) è lo scopo cui deve concorrere l’operato di chiunque abbia responsabilità pubbliche. L’irreprensibilità morale individuale, sempre auspicabile, potrebbe benissimo infatti coniugarsi con una profonda immoralità nell’esercizio delle proprie funzioni, qualora valutazioni e azioni non avessero al centro il bene del Paese, ma ne mettessero a repentaglio la coscienza unitaria e il raggiunto benessere. Vi è certamente un problema relativo al rapporto tra moralità e democrazia. Ma esso non può essere ridotto alla moralità privata.

Ancora il cardinale Bagnasco offre un decisivo passaggio al riguardo: «La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative». Che cosa si chiede a un politico? Che cosa deve fare e come deve essere un magistrato? Quale scopo devono perseguire i mezzi di comunicazione? Si tratta di altrettante questioni morali, che toccano il cuore di una democrazia, ma non riguardano il comportamento privato dei singoli attori, bensì una moralità pubblica, cioè connessa con l’esercizio delle rispettive funzioni in vista del bene comune.

A prescindere da come si chiariranno le cose nelle sedi opportune, il fatto che nell’attuale contingenza tutta l’attenzione si sposti sulla moralità intesa come capacità di coerenza nei comportamenti privati non lascia tranquilli, poiché mantiene aperto il varco a pericolose strumentalizzazioni, indebolendo la stabilità del Paese e distogliendo dalle urgenze che occorrerebbe affrontare e a partire dalle quali anzitutto giudicare le decisioni di chi si assume una responsabilità nella sfera politica.

Non è scontato che nel panorama attuale vi sia qualcuno che, irriducibile al gioco delle parti, richiami al bene comune come criterio di giudizio. Anzi, in un clima di preoccupante scontro e sconfinamento di poteri, ciò rappresenta un fattore essenziale per la salute di questa come di ogni democrazia.

Ancor meno scontata è la presenza di chi affermi, sfidando un moralismo dilagante (spesso interessato e sapientemente orientato), che quando si parla di debolezza e di incoerenza siamo tutti in questione («Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi»; 1 Gv 1,8). D’altra parte, collocandosi sul piano della moralità privata e spingendo al limite la logica implicita in ciò che sta accadendo, non si fatica a immaginare una società che faccia di alcuni valori morali preventivamente selezionati e adeguatamente enfatizzati uno strumento di lotta politica per l’eliminazione degli avversari. Nulla di nuovo, intendiamoci. La storia ci ha già fornito esempi in questo senso.

Non sarà mai il moralismo a rendere migliori. Occorre un luogo dove l’uomo possa venire ridestato nella sua grandezza, sostenuto nella sua tensione ideale, non ridotto ai suoi errori e alle sue miserie. Una società in cui mancasse un luogo dove l’uomo può sempre ritrovare se stesso, essere affermato al di là dei propri limiti, abbracciato e corretto, e perciò, in una umiltà che cresce, continuamente riprendersi, «guardare avanti con fiducia», come ancora ha detto Bagnasco, sarebbe una società senza speranza, esposta al terrore dell’arbitrio e delle mode e alla violenza, anche se in forme più sofisticate di un tempo. Per questo, oltre al bene comune, l’altro criterio di giudizio sulla vita politica che la tradizione cristiana consegna alla storia è quello della libertas ecclesiae, che ha a che fare col fatto che la Chiesa – luogo di educazione e di perdono – abbia la possibilità di esistere e di esprimersi, in funzione del cammino umano di tutti.

(Oscar Pini)



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giovedì 27 gennaio 2011

Turchia contro la raccomandazione sulle violenza ai cristiani

Il Consiglio d'Europa approva la "Raccomandazione sui cristiani in Medio Oriente"



A larga maggioranza l’assemblea del Consiglio d’Europa, ha votato a favore della Raccomandazione sulle violenze ai cristiani in Medio Oriente, presentata dal parlamentare italiano dell’Udc Luca Volonte'. Nel documento si chiede un piu' attento monitoraggio della difficile situazione in cui vivono i cristiani e l'elaborazione di una strategia per il rafforzamento della liberta' religiosa. Della delegazione turca, presente a Strasburgo 7 hanno votato contro e 4 si sono astenuti.

Da Ancona :riscoprire il senso religioso!!

Il cardinale Bagnasco alla Messa conclusiva del Consiglio Cei: i sacerdoti non temano le critiche



"Se la cultura nichilista tende a cancellare l’interiorità, i sacerdoti devono aiutare i fedeli a riscoprirla. E in questa loro missione non possono aver paura neanche delle possibili incomprensioni e delle critiche. L’esempio da seguire è quello di Benedetto XVI, che ci insegna l’umiltà del tratto, la chiarezza disarmata della verità, la sapienza lucida del dialogo, la prudenza ardita dei gesti, la libertà di fronte al mondo, il coraggio che deriva dal sapersi nelle mani di Dio". Così il cardinale Angelo Bagnasco ha chiuso il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana (Cei), svoltosi ad Ancona. Parole, quelle del porporato, pronunciate nell’omelia della Messa che ha riunito nella Cattedrale del capoluogo marchigiano i membri del "parlamentino" della Cei e i delegati diocesani del Congresso eucaristico nazionale, presenti in questi giorni proprio ad Ancona, in vista dell’importante appuntamento di settembre. Ai sacerdoti, ha spiegato il cardinale, spetta il compito di mantenere la professione della nostra speranza senza vacillare, in modo da rispondere all’attesa non solo della comunità cattolica, ma anche dell’intera società che esige da noi – nonostante limiti e debolezze – le parole che echeggiano quelle del Signore. Siamo richiamati e sospinti, ha aggiunto il presidente della Cei, perché la luce del nostro sacerdozio sia a servizio del mondo, si ponga in relazione con i molti ambiti della vita, e illumini circa le perenni questioni: il mistero del dolore e della morte, il senso del nostro esistere, il destino di ciascuno, la meta di questo straordinario e drammatico universo, il bene e il male morale. Il cardinale Bagnasco ha quindi invitato tutti a lottare contro l’abitudine che scolora la vita, indebolisce la ferialità del bene, rende opaca la fede, smorza la vibrazione dell’anima davanti al mistero eucaristico. Ogni giorno – ha concluso – dobbiamo invece rinfocolare il “si” a Colui che ci ha scelti per misericordia e rivestiti del suo sacerdozio. (Da Ancona, Mimmo Muolo) RealAudioMP3

domenica 23 gennaio 2011

Ruini sintetizza i 2 pontificati...magistralmente!!

Il cardinale Camillo Ruini sulla beatificazione di Giovanni Paolo II: la cosa che più colpiva era la profondità e la spontaneità del suo rapporto con Dio



Giovanni Paolo II sarà proclamato beato il prossimo primo maggio. Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che riconosce un miracolo avvenuto per intercessione di Papa Wojtyla. La beatificazione coinciderà con la Domenica in Albis, cioè la prima successiva alla Pasqua, nella quale lo stesso Papa polacco istituì la Festa della Divina Misericordia. Davide Dionisi ha chiesto al cardinale Camillo Ruini, vicario generale emerito di Sua Santità per la diocesi di Roma, come è stata accolta la notizia:RealAudioMP3

R. – È stata per me una gioia grande e anche molto personale. Dopo tanti anni in cui ho avuto la grazia di Dio di potere collaborare strettamente con Giovanni Paolo, con una persona che adesso anche la Chiesa ufficialmente riconosce come beato, è questo il primo gradino verso il riconoscimento della santità.

D. – Lei ha conosciuto Giovanni Paolo II nel lontano 1984 e ha vissuto a stretto contatto con lui. C’è qualcosa della personalità di Papa Wojtyla che le è rimasto dentro?

R. – La cosa che più colpiva era proprio la santità, la profondità e la spontaneità del suo rapporto con Dio: il suo modo di pregare, la sua preghiera … Lui era capace di immergersi immediatamente nella preghiera, di ‘sprofondarsi’ nella preghiera. E anche il suo atteggiamento costante, per cui tutte le cose di cui si occupava, di cui parlava erano sempre compiute in questa chiave del rapporto con Dio.

D. – Quale è stato, secondo lei, il tratto distintivo del suo pontificato?

R. – In primo luogo, quello dell’evangelizzazione. Ricordiamo le parole dell’inizio: “Non abbiate paura! Spalancate le porte a Cristo!”. La presenza di Dio, la presenza di Gesù Cristo, il rilancio della fede: è stato un grande evangelizzatore in prima persona, dalle parrocchie di Roma a tutti i Paesi del mondo. E’ stato anche un grande promotore delle forze capaci di evangelizzazione nella Chiesa. In secondo luogo, questa evangelizzazione riguardava proprio l’uomo concreto, quindi la sollecitudine per l’uomo concreto: Cristo Redentore dell’uomo. E anche l’altra frase famosa: l’uomo è la via della Chiesa e sulla via che va da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno. Con questa prospettiva, è riuscito ad incidere profondamente anche sul corso della storia: in qualche modo, ha cambiato il mondo.

D. – Anche Benedetto XVI ha continuato il suo messaggio, raccogliendone l’eredità…

R. – Io credo che Benedetto XVI, così come è stato il primo collaboratore di Giovanni Paolo II, è anche l’erede originale e creativo, naturalmente, ma il grande erede di questo pontificato e il grande continuatore di questo pontificato. Per cui, tra i due pontificati c’è una continuità profondissima. Decisiva è certamente la diversità delle due personalità. Per quanto riguarda Benedetto XVI vorrei richiamare due sue frasi: “Dio al centro”. Dio è al centro della vita e l’umanità deve riscoprire questa centralità di Dio. E la seconda è: “Allargare gli spazi della razionalità umana”. Allargare gli spazi per riscoprire la dignità dell’uomo, il valore della persona umana. In fondo, in altri termini è quello che Giovanni Paolo II esprimeva con l’evangelizzazione e con l’uomo, via della Chiesa.

D. – Come si preparano i fedeli al prossimo primo maggio? Quale è l’atmosfera che si respira già in questi primi giorni?

R. – Io penso che ci sia un’attesa enorme, a Roma ma anche in Italia e nel mondo, e che si tratterà di trovare le forme più opportune perché tutta questa gente possa venire e possa partecipare, così come ha potuto partecipare nelle indimenticabili giornate dei funerali di Giovanni Paolo II o anche nell’altra grande esperienza delle Giornate mondiali della gioventù. (gf)

martedì 18 gennaio 2011

Attenzione:Non la Chiesa in politica ma i fedeli laici a nome proprio ma educati nella Fede

Il rapporto tra Chiesa e politica alla luce del Concilio: pochi i politici cristiani di spessore professionale e morale



La Chiesa non si confonde in alcun modo con gli intrecci della politica, e tuttavia è sempre interessata alla politica intesa in senso ampio come servizio all'uomo e al bene comune. Un principio ribadito 45 anni fa in un passaggio della Costituzione dogmatica Gaudium et spes, dove si esortano i laici cristiani a impegnarsi in politica con adeguate capacità professionali, ma soprattutto con la coerenza che impone la loro fede. Il gesuita padre Dariusz Kowalczyk riflette su questo tema nella rubrica dedicata alla riscoperta dei documenti conciliari:RealAudioMP3

I preti dovrebbero stare lontano dalla politica. È vero o no? Dipende dal contesto. Il Codice di Diritto Canonico raccomanda che i chierici “non abbiano parte attiva nei partiti politici e nella guida di associazioni sindacali” (can. 287). Se la “politica” però viene intesa come sollecitudine per il bene comune, è chiaro che - così interpretata - deve essere oggetto d’interesse da parte dei sacerdoti. In ogni caso rimane valido il principio formulato dalla Gaudium et spes: “La Chiesa […] in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico” (n. 76). Infatti, la missione della Chiesa oltrepassa qualsiasi prospettiva politica. La Costituzione conciliare mette in rilievo che “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo” (GS 76). Contemporaneamente però fa notare che tutte e due le realtà sono a servizio degli stessi uomini. D’altra parte, i cattolici laici fanno parte di diversi partiti politici.

Il problema di oggi tuttavia non consiste in una politicizzazione dei sacerdoti, ma nella scarsità dei politici cristiani, capaci professionalmente e moralmente, ad impegnarsi in politica come cristiani. Dall’insegnamento del Concilio consegue chiaramente che i fedeli laici non dovrebbero rinunciare all’attività politica. Anzi, proprio loro sono chiamati ad essere presenti nelle diverse strutture della politica, a condizione di rimanere coerenti con la propria fede. È auspicabile che tale presenza sia caratterizzata – come leggiamo nella Gaudium e spes da “una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli […] compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori”. Ed è da augurarsi che p.es. nelle istituzioni dell’Unione Europea non manchino i politici capaci di mettere in pratica quel principio.

mercoledì 12 gennaio 2011

in ogni persona il volto del Signore:santa Caterina da Genova

Oggi come nella liturgia ,dove si racconta della guarigione della suocera di Pietro e così nel richiamo al devastante e terribile terremoto di Haiti e poi ancora nell' udienza del Papa sulla figura di Santa Caterina da Genova c'è una costante : la riflessione proposta dal Signore sulla sofferenza e sul peccato che deve spingerci a non aver paura ma essere vicino alla MANO di Cristo ed afferrarla per seguirlo nostante tutte le tribolazioni .

Il Papa all’udienza generale parla di Santa Caterina da Genova: il Purgatorio non è un luogo ma un fuoco interiore



Santa Caterina da Genova, una laica vissuta a cavallo tra la metà del 15.mo secolo e il primo decennio del 16.mo, è stata questa mattina al centro dell’udienza generale di Benedetto XVI in Aula Paolo VI. Il Papa si è soffermato in particolare sulla descrizione che la Santa fece del Purgatorio, da lei indicato come una condizione interiore dell’anima che risale gradualmente all’originaria purezza divina. Al termine dell’udienza, Benedetto XVI ha ribadito che l’epoca attuale mette in luce per i cristiani “l’urgenza” di annunciare il Vangelo “con la loro vita”. Il servizio di Alessandro De Carolis: RealAudioMP3

Non un luogo di tormenti sottoterra, ma un fuoco interiore che purifica l’anima. Cinquecento anni fa, così una donna genovese – che di mestiere faceva la direttrice del più grande ospedale cittadino dell’epoca – descrisse il Purgatorio. Nessuna scena apocalittica, come sarebbe stata più in tono con la sensibilità del tempo, ma l’immagine semplice e moderna di una fiamma che, consumando il peccato, riporta l’interiorità di un essere umano alla primitiva lucentezza. Ai novemila fedeli assiepati in Aula Paolo VI, Benedetto XVI ha riproposto la visione per cui la Santa di Genova passò alla storia, inquadrandola all’interno della sua vita di moglie e persona socialmente in vista, tentata da un decennio di mondanità che produce solo “vuoto” e “amarezza”, fino ad approdare all’incontro cruciale con Gesù, il 20 marzo 1473, durante una confessione bruscamente interrotta:

“Inginocchiatasi davanti al sacerdote, ‘ricevette - come ella stessa scrive - una ferita al cuore, d’un immenso amor de Dio’, con una visione così chiara delle sue miserie e dei suoi difetti e, allo stesso tempo, della bontà di Dio, che quasi ne svenne. Fu toccata nel cuore da questa conoscenza di se stessa, della vita vuota che conduceva e della bontà di Dio. Da questa esperienza nacque la decisione che orientò tutta la sua vita, espressa nelle parole: ‘Non più mondo, non più peccati’”.

Parte da qui, ha proseguito il Papa, la “vita di purificazione” di Caterina, segnata da un “costante dolore” per il peso del peccato, da un profondo contatto con Cristo nella preghiera e dall’acuta percezione della bontà di Dio. In questa esperienza di progressiva “unione mistica” – più tardi raccolta e descritta in un libro dal suo confessore – la futura Santa matura la sua percezione del Purgatorio. Una visione “originale”, ha riconosciuto il Pontefice, che pure non si configura come una vera e propria “rivelazione”:

“Il primo tratto originale riguarda il ‘luogo’ della purificazione delle anime. Nel suo tempo lo si raffigurava principalmente con il ricorso ad immagini legate allo spazio: si pensava a un certo spazio, dove si troverebbe il Purgatorio. In Caterina, invece, il Purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra: è un fuoco non esteriore, ma interiore. Questo è il Purgatorio, un fuoco interiore”.

In questa immagine e nei pensieri con i quali Caterina l’accompagna si condensa, ha considerato Benedetto XVI, il raffronto tra il “profondo dolore” patito per le sue personali miserie e l’“infinito amore di Dio” che l’ha perdonata. Anche questo influisce sull’immagine che la Santa genovese ha del Purgatorio:

“Non si parte, infatti, dall’aldilà per raccontare i tormenti del Purgatorio - come era in uso a quel tempo e forse ancora oggi - e poi indicare la via per la purificazione o la conversione, ma la nostra Santa parte dall’esperienza propria interiore della sua vita in cammino verso l’eternità (…) L’anima è consapevole dell’immenso amore e della perfetta giustizia di Dio e, di conseguenza, soffre per non aver risposto in modo corretto e perfetto a tale amore, e proprio l’amore stesso a Dio diventa fiamma, l’amore stesso la purifica dalle sue scorie di peccato”.

La spiritualità dei Caterina da Genova, ha osservato il Papa, si nutre di fonti teologiche antiche, come spesso accade nei Santi che sviluppano un intenso rapporto con il soprannaturale attraverso le letture sacre. Una costante che ha fatto soggiungere al Pontefice:

“I Santi, nella loro esperienza di unione con Dio, raggiungono un sapere’ così profondo dei misteri divini, nel quale amore e conoscenza si compenetrano, da essere di aiuto agli stessi teologi nel loro impegno di studio, di intelligentia fidei, di intelligentia dei misteri della fede, di approfondimento reale dei misteri, per esempio di che cosa è il Purgatorio”.

Attorno alla donna, immersa con grande disponibilità nei suoi doveri di responsabile d’ospedale, si coagulano negli anni entusiasmo e seguaci. Dio e il nosocomio, ha affermato il Papa, diventano i “poli” che riempiono totalmente la sua vita. Ma una vita tutt’altro che persa dietro e dentro fantasticherie interiori:

“Cari amici, non dobbiamo mai dimenticare che quanto più amiamo Dio e siamo costanti nella preghiera, tanto più riusciremo ad amare veramente chi ci sta intorno, chi ci sta vicino, perché saremo capaci di vedere in ogni persona il volto del Signore, che ama senza limiti e distinzioni. La mistica non crea distanza dall’altro, non crea una vita astratta, ma piuttosto avvicina all’altro, perché si inizia a vedere e ad agire con gli occhi, con il cuore di Dio”.

Proprio la particolare dedizione della Santa genovese verso gli ammalati ha suggerito al Papa un pensiero conclusivo:

“Il servizio umile, fedele e generoso, che la Santa prestò per tutta la sua vita nell’ospedale di Pammatone, poi, è un luminoso esempio di carità per tutti e un incoraggiamento specialmente per le donne che danno un contributo fondamentale alla società e alla Chiesa con la loro preziosa opera, arricchita dalla loro sensibilità e dall’attenzione verso i più poveri e i più bisognosi”.

E ai malati, così come ai giovani e ai nuovi sposi, Benedetto XVI ha poi affidato una sua premura al termine dell’udienza generale e dei saluti nelle altre lingue. “Le vicende di questa nostra epoca – ha detto – mettono ben in luce quanto sia urgente per i cristiani annunciare il Vangelo con la vita”. Siate dunque, ha concluso…

“…seminatori di speranza e di gioia (…) a beneficio della Chiesa e del mondo”.