giovedì 29 gennaio 2009

Un chiaro e definitivo giudizio sulla Shoah!


Il Papa ha espresso chiaramente ieri, al termine della udienza, il suo parere circa la storia che riguarda la Shoah.
E' bella la ripercussione positiva del rabbinato israeliano che , mettendo da parte le strumentali dichiarazioni del vescovo Williamson della fraternità San Pio x attualmente in revoca di scomunica, ha benevolmente apprezzato la dichiarazione di Benedetto XVI in prospettiva di un suo prossimo pellegrinaggio in terra santa.


Mentre rinnovo con affetto l'espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l'umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell'uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti.

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#2

martedì 27 gennaio 2009

L'unita' solo attraverso la personale conversione


In questa settimana siamo invitati dalla liturgia di Domenica e dalla riflessione ai Vespri in San Paolo fuori le mura de Papa a considerare ad ogni livello la questine deell' unità
La parola "magica" che sta dietro a tutto questo è un' altra parola : Conversione.
Passo passo il Papa ci introduce in questo legame inscindibile tra una trasformazione personale e l'espressione unitaria di ogni comunità.




L'unità dei cristiani ha bisognodi gesti coraggiosi di riconciliazione
La preghiera per l'unità "chiede sempre di essere comprovata da gesti coraggiosi di riconciliazione tra noi cristiani".

Lo ha ricordato il Papa presiedendo domenica sera, 25 gennaio, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, la celebrazione dei secondi Vespri della solennità della conversione dell'apostolo, a conclusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.


Cari fratelli e sorelle, è grande ogni volta la gioia di ritrovarci presso il sepolcro dell'apostolo Paolo, nella memoria liturgica della sua Conversione, per concludere la Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani. Vi saluto tutti con affetto. In modo particolare saluto il Cardinale Cordero Lanza di Montezemolo, l'Abate e la Comunità dei monaci che ci ospitano. Saluto pure il Cardinale Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani. Con lui saluto i Signori Cardinali presenti, i Vescovi e i Pastori delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti stasera. Una parola di speciale riconoscenza va a quanti hanno collaborato nella preparazione dei sussidi per la preghiera, vivendo in prima persona l'esercizio del riflettere e confrontarsi nell'ascolto gli uni degli altri e, tutti insieme, della Parola di Dio. La conversione di san Paolo ci offre il modello e ci indica la via per andare verso la piena unità. L'unità infatti richiede una conversione: dalla divisione alla comunione, dall'unità ferita a quella risanata e piena. Questa conversione è dono di Cristo risorto, come avvenne per san Paolo. Lo abbiamo sentito dalle stesse parole dell'Apostolo nella lettura poc'anzi proclamata: "Per grazia di Dio sono quello che sono" (1 Cor 15, 10). Lo stesso Signore, che chiamò Saulo sulla via di Damasco, si rivolge ai membri della sua Chiesa - che è una e santa - e chiamando ciascuno per nome domanda: perché mi hai diviso? perché hai ferito l'unità del mio corpo? La conversione implica due dimensioni. Nel primo passo si conoscono e riconoscono nella luce di Cristo le colpe, e questo riconoscimento diventa dolore e pentimento, desiderio di un nuovo inizio. Nel secondo passo si riconosce che questo nuovo cammino non può venire da noi stessi. Consiste nel farsi conquistare da Cristo. Come dice san Paolo: "... mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo" (Fil 3, 12). La conversione esige il nostro sì, il mio "correre"; non è ultimamente un'attività mia, ma dono, un lasciarsi formare da Cristo; è morte e risurrezione. Perciò san Paolo non dice: "Mi sono convertito", ma dice "sono morto" (Gal 2, 19), sono una nuova creatura. In realtà, la conversione di san Paolo non fu un passaggio dall'immoralità alla moralità - la sua moralità era alta -, da una fede sbagliata ad una fede corretta - la sua fede era vera, benché incompleta -, ma fu l'essere conquistato dall'amore di Cristo: la rinuncia alla propria perfezione, fu l'umiltà di chi si mette senza riserva al servizio di Cristo per i fratelli. E solo in questa rinuncia a noi stessi, in questa conformità con Cristo possiamo essere uniti anche tra di noi, possiamo diventare "uno" in Cristo. È la comunione col Cristo risorto che ci dona l'unità. Possiamo osservare un'interessante analogia con la dinamica della conversione di san Paolo anche meditando sul testo biblico del profeta Ezechiele (37, 15-28) prescelto quest'anno come base della nostra preghiera. In esso, infatti, viene presentato il gesto simbolico dei due legni riuniti in uno nella mano del profeta, che con questo gesto rappresenta l'azione futura di Dio. È la seconda parte del capitolo 37, che nella prima parte contiene la celebre visione delle ossa aride e della risurrezione d'Israele, operata dallo Spirito di Dio. Come non notare che il segno profetico della riunificazione del popolo d'Israele viene posto dopo il grande simbolo delle ossa aride vivificate dallo Spirito? Ne deriva uno schema teologico analogo a quello della conversione di san Paolo: al primo posto sta la potenza di Dio, che col suo Spirito opera la risurrezione come una nuova creazione. Questo Dio, che è il Creatore ed è in grado di risuscitare i morti, è anche capace di ricondurre all'unità il popolo diviso in due. Paolo - come e più di Ezechiele - diventa strumento eletto della predicazione dell'unità conquistata da Gesù mediante la croce e la risurrezione: l'unità tra i giudei e i pagani, per formare un solo popolo nuovo. La risurrezione di Cristo quindi estende il perimetro dell'unità: non solo unità delle tribù di Israele, ma unità di ebrei e pagani (cfr. Ef 2; Gv 10, 16); unificazione dell'umanità dispersa dal peccato e ancor più unità di tutti i credenti in Cristo. La scelta di questo brano del profeta Ezechiele la dobbiamo ai fratelli della Corea, i quali si sono sentiti fortemente interpellati da questa pagina biblica, sia in quanto coreani, sia in quanto cristiani. Nella divisione del popolo ebreo in due regni si sono rispecchiati come figli di un'unica terra, che le vicende politiche hanno separato, parte al nord e parte al sud. E questa loro esperienza umana li ha aiutati a comprendere meglio il dramma della divisione tra i cristiani. Ora, alla luce di questa Parola di Dio che i nostri fratelli coreani hanno scelto e proposto a tutti, emerge una verità piena di speranza: Dio promette al suo popolo una nuova unità, che deve essere segno e strumento di riconciliazione e di pace anche sul piano storico, per tutte le nazioni. L'unità che Dio dona alla sua Chiesa, e per la quale noi preghiamo, è naturalmente la comunione in senso spirituale, nella fede e nella carità; ma noi sappiamo che questa unità in Cristo è fermento di fraternità anche sul piano sociale, nei rapporti tra le nazioni e per l'intera famiglia umana. È il lievito del Regno di Dio che fa crescere tutta la pasta (cfr. Mt 13, 33). In questo senso, la preghiera che eleviamo in questi giorni, riferendoci alla profezia di Ezechiele, si è fatta anche intercessione per le diverse situazioni di conflitto che al presente affliggono l'umanità. Là dove le parole umane diventano impotenti, perché prevale il tragico rumore della violenza e delle armi, la forza profetica della Parola di Dio non viene meno e ci ripete che la pace è possibile, e che dobbiamo essere noi strumenti di riconciliazione e di pace. Perciò la nostra preghiera per l'unità e per la pace chiede sempre di essere comprovata da gesti coraggiosi di riconciliazione tra noi cristiani. Penso ancora alla Terra Santa: quanto è importante che i fedeli che vivono là, come pure i pellegrini che vi si recano, offrano a tutti la testimonianza che la diversità dei riti e delle tradizioni non dovrebbe costituire un ostacolo al mutuo rispetto e alla carità fraterna. Nelle diversità legittime di tradizioni diverse dobbiamo cercare l'unità nella fede, nel nostro "sì" fondamentale a Cristo e alla sua unica Chiesa. E così le diversità non saranno più ostacolo che ci separa, ma ricchezza nella molteplicità delle espressioni della fede comune. Vorrei concludere questa mia riflessione facendo riferimento ad un avvenimento che i più anziani tra noi certamente non dimenticano. Il 25 gennaio del 1959, esattamente cinquant'anni or sono, il beato Papa Giovanni XXIII manifestò per la prima volta in questo luogo la sua volontà di convocare "un Concilio ecumenico per la Chiesa universale" (AAS li [1959], p. 68). Fece questo annuncio ai Padri Cardinali, nella Sala capitolare del Monastero di San Paolo, dopo aver celebrato la Messa solenne nella Basilica. Da quella provvida decisione, suggerita al mio venerato Predecessore, secondo la sua ferma convinzione, dallo Spirito Santo, è derivato anche un fondamentale contributo all'ecumenismo, condensato nel Decreto Unitatis redintegratio. In esso, tra l'altro, si legge: "Ecumenismo vero non c'è senza interiore conversione; poiché il desiderio dell'unità nasce e matura dal rinnovamento della mente (cfr. Ef 4, 23), dall'abnegazione di se stesso e dalla liberissima effusione della carità" (n. 7). L'atteggiamento di conversione interiore in Cristo, di rinnovamento spirituale, di accresciuta carità verso gli altri cristiani ha dato luogo ad una nuova situazione nelle relazioni ecumeniche. I frutti dei dialoghi teologici, con le loro convergenze e con la più precisa identificazione delle divergenze che ancora permangono, spingono a proseguire coraggiosamente in due direzioni: nella ricezione di quanto positivamente è stato raggiunto e in un rinnovato impegno verso il futuro. Opportunamente il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, che ringrazio per il servizio che rende alla causa dell'unità di tutti i discepoli del Signore, ha recentemente riflettuto sulla ricezione e sul futuro del dialogo ecumenico. Tale riflessione, se da una parte vuole giustamente valorizzare quanto è stato acquisito, dall'altra intende trovare nuove vie per la continuazione delle relazioni fra le Chiese e Comunità ecclesiali nel contesto attuale. Rimane aperto davanti a noi l'orizzonte della piena unità. Si tratta di un compito arduo, ma entusiasmante per i cristiani che vogliono vivere in sintonia con la preghiera del Signore: "che tutti siano uno, affinché il mondo creda" (Gv 17, 21). Il Concilio Vaticano II ci ha prospettato che "il santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell'unità della Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane" (UR, 24). Facendo affidamento sulla preghiera del Signore Gesù Cristo, e incoraggiati dai significativi passi compiuti dal movimento ecumenico, invochiamo con fede lo Spirito Santo perché continui ad illuminare e guidare il nostro cammino. Ci sproni e ci assista dal cielo l'apostolo Paolo, che tanto ha faticato e sofferto per l'unità del corpo mistico di Cristo; ci accompagni e ci sostenga la Beata Vergine Maria, Madre dell'unità della Chiesa.

(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)

Anche Domenica , in uno stralcio dell' Angelus affermava:
..Convertirsi significa, anche per ciascuno di noi, credere che Gesù "ha dato se stesso per me", morendo sulla croce (cfr. Gal 2, 20) e, risorto, vive con me e in me. Affidandomi alla potenza del suo perdono, lasciandomi prendere per mano da Lui, posso uscire dalle sabbie mobili dell'orgoglio e del peccato, della menzogna e della tristezza, dell'egoismo e di ogni falsa sicurezza, per conoscere e vivere la ricchezza del suo amore.

domenica 25 gennaio 2009

Una decisione molto deludente





Washington, 24. Una decisione "molto deludente". Così i vescovi degli Stati Uniti hanno accolto il primo provvedimento del presidente Barack Obama in tema di aborto. Un provvedimento che viene considerato un errore sulla strada della difesa della vita umana e della dignità di ogni persona. Il neopresidente - come aveva preannunciato nel corso della campagna elettorale - ha emesso venerdì l'ordine esecutivo con il quale viene rimossa la cosiddetta Mexico City Policy, che vieta il finanziamento alle organizzazioni impegnate nella pratica e nella promozione dell'aborto nei Paesi in via di sviluppo. A Città del Messico, nel 1984, si tenne un vertice dell'Organizzazione delle Nazioni Unite sulla popolazione mondiale. In quella circostanza, l'allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, stabilì quella che è stata appunto definita "la dottrina di Città del Messico", rimossa da Clinton il 22 gennaio del 1993 - nell'anniversario della nota sentenza Roe vs Wade - e poi ripristinata da George W. Bush. Ha affermato il cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia e presidente della commissione episcopale per le attività pro-vita: "È molto deludente che il presidente Obama abbia rimosso la Mexico City Policy. Un'amministrazione che vuole ridurre gli aborti non dovrebbe convogliare fondi verso organizzazioni che realizzano e promuovono gli aborti come metodo di pianificazione delle nascite nei Paesi in via di sviluppo". Solo pochi giorni fa il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale, aveva scritto a Obama, per chiedere che fosse mantenuta la normativa: "La Mexico City Policy - ha scritto il porporato - è stata erroneamente considerata come una restrizione agli aiuti per la pianificazione familiare. In realtà, non ha ridotto affatto tali aiuti, ma ha assicurato che i fondi non arrivassero alle organizzazioni che promuovono l'aborto invece di ridurlo. Una volta che la linea netta di divisione fra pianificazione familiare e aborto è cancellata, l'idea di usare la pianificazione per ridurre gli aborti diventa priva di significato e l'aborto tende a rimpiazzare la contraccezione". Sulla necessità di ridurre il numero degli aborti è d'accordo la grande maggioranza dei cittadini statunitensi, circostanza questa ricordata più volte dagli stessi vescovi, che hanno assicurato al Governo la loro più ampia collaborazione riguardo alla difesa della dignità di tutte le persone e quindi in misura particolare delle più indifese e di quelle che non hanno voce. In questa prospettiva, la stessa conferenza episcopale ha accolto con ampio favore la decisione del presidente Obama di bandire la tortura: "La nostra Conferenza - ha dichiarato il vescovo di Albany, Howard James Hubbard, presidente della commissione episcopale sulla giustizia e la pace internazionali - apprezza questo provvedimento. Insieme con altri leader religiosi abbiamo fatto pressioni affinché venisse compiuto questo passo che va verso la difesa della dignità umana e che aiuta a ripristinare la posizione morale e legale degli Stati Uniti nel mondo. La messa al bando della tortura - ha aggiunto - dice molto di noi: dice chi siamo, che cosa pensiamo circa la vita e la dignità umane e cosa facciamo come nazione". Allo stesso modo, i vescovi ritengono sia qualificante difendere la vita sempre e in ogni circostanza. In un'intervista al quotidiano italiano "Corriere della Sera" l'arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha detto: "Chiunque abbia delle responsabilità, quando inizia un cammino, dev'essere capace di valutare non solo le esigenze del proprio Paese ma anche le conseguenze che ne derivano altrove. Quanto avviene negli Usa ricade in altre parti del mondo. Per questo si deve essere capaci di ascolto, di umiltà, e magari di chiedere aiuto agli altri".

Messaggio del Papa all'Unione cattolica della stampa italiana

La consapevolezza della difficoltà del fedele laico di incontrare il mondo attuale e cercare una condivisione su valori comuni . A questo si aggiunge il rischio di una minaccia alla libertà da parte dei poteri economici e politici.

La testimonianza silenziosa sembra la soluzione ladddove viviamo il nostro lavoro.

In sintesi

1) Responsabilità e spirito di servizio ( valori morali)

2)Spiccata professionalità e grande capacità di dialogo con il mondo laico.

Attraverso queste virtù l'ascolto sarà sempre più forte se ci sarà una testimonianza della nostra vita.

MINACCE:

1)interessi economici e

politici

NON CEDERE a Compromessi


Sono stato informato che l'Unione Cattolica della Stampa Italiana (ucsi), della quale Ella è Presidente, celebra in questi giorni il suo Congresso nazionale, ricordando il cinquantesimo di fondazione. La circostanza mi è propizia per porgere a Lei ed ai colleghi cordiali felicitazioni ed insieme esprimere il mio apprezzamento per il prezioso servizio che l'ucsi ha offerto, nel corso dei suoi cinquant'anni di vita, alla Chiesa e al Paese. A mezzo secolo di distanza dalla fondazione dell'Unione molte cose sono cambiate. In modo più visibile in settori quali quelli che vanno dalla scienza alla tecnologia, dall'economia alla geopolitica; in modo meno appariscente, ma più profondo ed anche più preoccupante, nell'ambito della cultura corrente, nella quale sembra essersi notevolmente affievolito, insieme con il rispetto per la dignità della persona, il senso di valori quali la giustizia, la libertà, la solidarietà, che sono essenziali per la sopravvivenza di una società. Ancorato a un patrimonio di principi radicati nel Vangelo, il vostro lavoro di giornalisti cattolici risulta oggi ancora più arduo: al senso di responsabilità e allo spirito di servizio che vi contraddistinguono, dovete infatti affiancare una sempre più spiccata professionalità ed insieme una grande capacità di dialogo con il mondo laico, alla ricerca di valori condivisi. Tanto più facilmente troverete ascolto quanto più coerente sarà la testimonianza della vostra vita. Non sono pochi, tra i vostri colleghi laici, quelli che intimamente attendono da voi la testimonianza silenziosa, senza etichette ma di sostanza, di una vita ispirata ai valori della fede. Voi siete impegnati, ne sono ben consapevole, in un compito sempre più esigente, nel quale gli spazi di libertà sono spesso minacciati e gli interessi economici e politici hanno non di rado il sopravvento sullo spirito di servizio e sul criterio del bene comune. Vi esorto a non cedere a compromessi in valori tanto importanti, ma ad avere il coraggio della coerenza, anche a costo di pagare di persona: la serenità della coscienza non ha prezzo. Vi sono vicino con la preghiera, chiedendo al Signore di aiutarvi ad essere sempre "pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Con questo augurio invio a Lei, Signor Presidente, ai Dirigenti ed ai Membri dell'Unione Cattolica della Stampa Italiana, come anche alle loro famiglie, una speciale Benedizione Apostolica, propiziatrice di copiosi favori celesti.
Dal Vaticano, 19 gennaio 2009
(©L'Osservatore Romano - 25 gennaio 2009)

venerdì 23 gennaio 2009

Benedetto XVI ci spiega come avviene e perchè la comunicazione

Grande accoglienza del Papa delle nuove tecnologie con l'unica attenzione sempre alla natura umana ed alle sue esigenze che in questo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali dimostra di spiegarci benissimo.
Ecco alcuni stralci del discorso che potrete andarvi a legger sul sito del vaticano oppure su:http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#1


...Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche. Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell'intera umanità un'unica famiglia.Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio - una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione. Il desiderio di connessione e l'istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri. In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani. Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore. Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell'insegnamento morale di Gesù: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" e "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (cfr. Mc 12, 30-31). ......





...La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello.Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia....





...L'amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso. Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l'un l'altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana. In questo contesto, è gratificante vedere l'emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione...








...in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede. Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l'evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l'attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell'intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l'annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo...

mercoledì 21 gennaio 2009

Anche Scola sulla Unità delle genti




A Genova il secondo incontro di «Cattedrale aperta»
La vera laicità non teme la libertà religiosa

È dedicato al rapporto tra laicità e libertà religiosa il secondo incontro del ciclo "Cattedrale aperta", promosso dall'arcidiocesi di Genova, al quale partecipano il cardinale patriarca di Venezia e Cesare Mirabelli.


...Per affrontare questo imponente processo di mescolamento di genti è necessario che tutti i soggetti personali e comunitari contribuiscano ad una vita buona, mediante la reciproca comunicazione e la reciproca testimonianza pubblica dei beni, anche religiosi, di cui sono portatori, nel rispetto della tradizione ma anche con fiducia nella comune appartenenza alla famiglia umana. ...

Solo uscendo da noi e andando verso Cristo, solo nella relazione con Lui possiamo diventare realmente uniti tra di noi.


Interessante legare queste due notizie sulla intima esigenza dello spirito umano in accordo potremmo dire con lo Spirito di Dio circa l'esigenza profonda mondiale di una vera Unità di cui solo il Papa con la Sua Autorità ci sa indicare la strada !


Quest'anno, la "Settimana di preghiera per l'unità" propone alla nostra meditazione e preghiera queste parole tratte dal libro del profeta Ezechiele: "Che formino una cosa sola nella tua mano" (37, 17). Il
tema è stato scelto da un gruppo ecumenico della Corea.






Voglio quindi anche aggiungere quanto sia espresso oggi da Washington da Giulia Galeotti su L'Osservatore Romano

È un avvenimento che cambierà il modo in cui i bambini neri guarderanno a se stessi, così come il modo in cui i bambini bianchi guarderanno ai bambini neri, un cambiamento capace di mutare il volto e l'essenza della società americana. Lungo questa via, infatti, sarà possibile trasformare la maniera in cui ciascuno si relaziona con chi è diverso da sé, con chi ha una prospettiva diversa: invece che essere fonte di separazione o di debolezza "il nostro multiforme retaggio è una forza" ha detto il presidente. Ecco, per questa e in questa varietà di ottica, Obama potrebbe fare la differenza, avendo vissuto lo sdradicamento, la marginalizzazione, la diversità che poi molto spesso è la scoperta che gli altri ti percepiscono come diverso. Tutte sensazioni che i neri conoscono benissimo, ma che conoscono perfettamente anche gli italiani, gli irlandesi e tutti gli emigranti del mondo nella storia.
Link per il video del discorso tradotto in italiano:
http://www.rai.tv/mpplaymedia/0,,News-Tg1%5E0%5E176958,00.html#
...Staremo a vedere quanto è retorica e quanto espressione di un uomo vero fino in fondo..

Che ne pensate?

lunedì 19 gennaio 2009

In terra santa c'e' posto per tutti!!



Niente piu' fazioni opposte , tifoserie assurde anche e soprattutto nei programmi televisivi !!La Terra Santa può e deve essere la terra di tutte le confessioni religiose che qui sono vissute.
Facciamo memoria di questo Angelus!


All'Angelus il Papa incoraggia a riprendere il filo del dialogo nella giustizia e nella verità
Per Gaza soluzioni pacifiche e durevoli

Per Gaza il Papa chiede "che si sappia approfittare, con saggezza, degli spiragli aperti" per riavviare un dialogo "nella giustizia e nella verità". All'Angelus di domenica 18 gennaio, in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha rinnovato il suo appello per la pace in Terra Santa. Continuo a seguire con profonda trepidazione il conflitto nella Striscia di Gaza. Ricordiamo anche oggi al Signore le centinaia di bambini, anziani, donne, caduti vittime innocenti dell'inaudita violenza, i feriti, quanti piangono i loro cari e coloro che hanno perduto i loro beni. Vi invito, nello stesso tempo, ad accompagnare con la preghiera gli sforzi che numerose persone di buona volontà stanno compiendo per fermare la tragedia. Spero vivamente che si sappia approfittare, con saggezza, degli spiragli aperti per ripristinare la tregua e avviarsi verso soluzioni pacifiche e durevoli. In questo senso, rinnovo il mio incoraggiamento a quanti, da una parte come dall'altra, credono che in Terrasanta ci sia spazio per tutti, affinché aiutino la loro gente a rialzarsi dalle macerie e dal terrore e, coraggiosamente, riprendere il filo del dialogo nella giustizia e nella verità. È questo l'unico cammino che può effettivamente schiudere un avvenire di pace per i figli di quella cara regione!(©L'Osservatore Romano - 19-20 gennaio 2009)

domenica 18 gennaio 2009

L'Europa attuale :terra di persecuzione cristiana sottile

Non scherziamoci tanto in questa realtà in cui il vecchio continente non riconosce più le sue radici e quindi lo sviluppo della sua cultura e della sua vita!!

In Europa sono poche le voci che si levano in difesa delle comunità cristiane perché pregiudizi nati da atteggiamenti di laicismo deteriore vengono sbandierati come espressioni di normale laicità. Lo sottolinea in un'intervista a "L'Osservatore Romano" il vicepresidente del Parlamento europeo, Mario Mauro, nominato rappresentante personale della presidenza dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la promozione della tolleranza e la lotta al razzismo e alla xenofobia, "con particolare riguardo alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni". L'impegno cui ora è chiamato il politico italiano s'inserisce nella più ampia missione dell'Osce, che - come evidenzia egli stesso - "è stata la prima organizzazione internazionale a comprendere che la promozione della libertà religiosa, come degli altri diritti umani, giova alla sicurezza e alla stabilità internazionale". Come mai l'Osce ha sentito l'esigenza di nominare un rappresentante contro la discriminazione, in particolare contro i cristiani? In realtà la questione è stata sollevata nel 2004, quando su sollecitazione di alcuni Paesi partecipanti è stato messo bene in chiaro che, anche se nessun problema politico si risolve con la religione, è soprattutto vero che nessun problema politico può essere risolto andando contro la religione. Questo dato, visto il peso che oggi ha nella nostra società la considerazione pubblica dell'esperienza della fede, ha reso opportuna un'azione tesa a far comprendere quello che affermava Giovanni Paolo II, molti anni fa, in tempi non sospetti: cioè che la libertà religiosa non è una libertà come le altre, ma una sorta di cartina al tornasole delle altre libertà. Il presidente Giorgio Napolitano in più occasioni - come nell'intervista a "L'Osservatore Romano", pubblicata nel numero dell'11 ottobre scorso - ha auspicato con forza la protezione delle comunità cristiane. La sua voce, però, sembra isolata nel panorama internazionale. Perché? Rispetto alle comunità cristiane che vivono soprattutto nelle aree al di fuori dell'Osce vi è una tendenza a far coincidere, in maniera quasi immaginifica, comunità cristiana e Occidente. Questo fatto, evidentemente, detta i tempi e i modi di un atteggiamento politico verso comunità che sostanzialmente vengono considerate espressioni colonialistiche. Un esempio. In molte realtà mediorientali cristianesimo e Occidente sono identificati, quando invece in quei Paesi le comunità cristiane hanno origini ben più antiche delle attuali maggioranze religiose. Nel contesto dei Paesi aderenti all'Osce, e in particolare in quelli occidentali, la difficoltà ad avere un atteggiamento comparabile a quello del presidente Napolitano nasce invece da un pregiudizio sedimentatosi negli anni, che viene sbandierato come laico, e che finisce invece per essere un aspetto di un laicismo deteriore. Quali sono le aree in Europa dove la situazione dei cristiani e dei seguaci di altre religioni è particolarmente difficile? Se pensiamo all'Europa largamente intesa, è evidente che le realtà più problematiche sono rintracciabili nell'area caucasica e dei Paesi dell'est, come pure in certe situazioni di discriminazione di alcune zone dell'Unione europea. Tuttavia, mentre nei Paesi dell'ex blocco comunista il problema coincide per lo più con i tempi e i modi di restituzione di beni appartenenti alle comunità religiose di quei Paesi, nelle nazioni dell'Unione europea ci troviamo in presenza di discriminazioni, probabilmente più sottili - ma comunque più consistenti - che riguardano il diritto di considerare l'espressione della fede come un fattore di vita pubblica, e non semplicemente come un fatto privato. Come s'inseriscono in questo contesto i concetti di secolarismo e relativismo? Siamo portati spesso a pensare che secolarismo e relativismo servano a combattere l'intolleranza. Ma se dimentichiamo che l'elemento religioso agisce nell'uomo come fattore potente di realizzazione della propria umanità, rischiamo noi stessi di scadere in un atteggiamento di intolleranza. E questo è un fatto di non poco conto, che condiziona il rapporto tra le religioni. In Europa si può parlare di fenomeni di xenofobia? Credo di sì. Le difficoltà legate alle grandi migrazioni degli ultimi anni hanno generato in alcune situazioni fenomeni di vera e propria xenofobia. In questo senso, il contributo che le istituzioni possono dare a qualunque livello, sia locale che internazionale, ha come elemento strategico la strada maestra dell'educazione. È questa, del resto, è una delle priorità indicate dalla presidenza greca dell'Osce, che sollecita un piano di educazione ai diritti umani. Ritiene quindi che la lotta contro la xenofobia e il razzismo possa partire dalla scuola? Senz'altro. Basti pensare che in una città come Milano, oggi, in una scuola media su venti alunni per classe, dieci o dodici sono di etnie diverse: è dunque evidente che vi sono le condizioni per educare alla convivenza civile. Quali saranno le sue competenze e strategie di intervento, anche alla luce del suo precedente impegno nel Parlamento europeo? In questi anni ho dedicato il mio lavoro al tema della libertà religiosa, della piena espressione delle prerogative legate alla libertà religiosa, del dialogo fra le religioni. Facendo tesoro di questa esperienza, lavorerò in piena sintonia con gli altri due rappresentanti personali della presidenza greca, competenti per la lotta all'antisemitismo e per la lotta alle discriminazioni nei confronti dei musulmani. (©L'Osservatore Romano - 18 gennaio 2009) http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#10

sabato 17 gennaio 2009

facebook :la punta di un iceberg ,ma da capire con attenzione

Il nuovo fenomeno di comunicazione della rete
L'utopia di Facebook

È in uscita il primo numero del 2009 del quindicinale "La Civiltà Cattolica". Anticipiamo stralci di uno degli articoli.
di Antonio Spadaro
Le tecnologie che realizzano la rete non sono affatto da considerare effimere: le forme di comunicazione non vengono mai semplicemente superate, ma integrate a un livello superiore. E questo è il senso dell'evoluzione del web e delle piattaforme di social network. La prima domanda da fare dunque non è sul futuro ma, in un certo senso, sul passato, cioè sulle radici umane e sui bisogni profondi ai quali Facebook, il nuovo fenomeno della rete, ha risposto riscuotendo così tanto successo. Ci chiediamo dunque: a quale bisogno risponde? Potremmo sinteticamente rilevare che Facebook permette ai suoi utenti di sentirsi e vedersi parte di una rete di relazioni che hanno un volto e una storia quotidiana alla quale si può partecipare con un click. Se io vado sulla mia home, cioè la prima schermata che mi appare quando mi connetto alla piattaforma, in un colpo d'occhio vedo lo stato aggiornato dei miei "amici", e dunque apprendo che cosa stanno facendo, posso visitare poi il loro profilo e saperne di più, magari vedendo chi sono i loro nuovi "amici" o leggere le loro riflessioni, vedere le nuove foto che hanno scattato, e così via. È possibile trovare anche qualche amico on line e chattare con lui direttamente o inviare messaggi grazie a un sistema ad hoc. Facebook dunque permette di sviluppare relazioni e, d'altra parte, permette ad altri di svilupparle con noi. Infatti chi aggiorna il proprio stato o fa l'upload (cioè "carica", come si dice in gergo) di materiali personali lo fa perché altri possano conoscerli, leggerli, vederli. Facebook diventa parte di un più ampio lifestreaming, un flusso di vita vissuta che viene in un modo o nell'altro diffuso e quindi condiviso con i propri contatti mantenendo un certo grado di intimità, almeno apparente. Le applicazioni sociali che fanno parte del lifestreaming forniscono una cronaca dettagliata e puntuale delle esperienze quotidiane degli utenti. In fondo, tutto questo è una sorta di controllata abolizione della privacy, affidata a quella che comunque è un'azienda che fa profitti proprio grazie ai dati personali che le persone si scambiano tra loro. Da qui anche un fronte di opposizione a Facebook che sta facendo sentire la propria voce. Fortunatamente su Facebook è possibile impostare alti livelli di protezione dei dati forniti dall'utente, e tuttavia anche il livello massimo di privacy consente agli "amici" l'accesso ai propri dati. Del resto, se così non fosse, la piattaforma stessa perderebbe di senso. Facebook dunque serve per entrare nella vita degli altri e permettere agli altri di entrare nella propria. Gli "altri" non sono "tutti", ma coloro con i quali si decide di stabilire una relazione. Ovviamente è possibile abbassare i livelli di privacy ed esporre il proprio profilo al mare della rete, ma anche questa logica, tutto sommato, è incoerente con quella della piattaforma, che invece tende a creare una rete in qualche modo circoscritta di "amici" e non una sorta di pagina completamente aperta al pubblico. Il bisogno di conoscere e farsi conoscere, il bisogno di vivere l'amicizia sono bisogni "seri", che si bilanciano con il rischio di confondere relazioni superficiali e sporadiche con l'amicizia, comunicazione di sé ed esibizionismo, voglia di fare conoscenza e voyeurismo. Sebbene la differenza tra le prime e le seconde sia radicale, per essere percepita ha bisogno di un'adeguata educazione alle relazioni e alla percezione di sé. Facebook in questo senso è una sfida, perché come tutte le piattaforme di social network è insieme un potenziale aiuto alle relazioni ma anche una minaccia. La relazione umana non è un gioco e richiede tempi, conoscenza diretta. La relazione mediata dalla rete è sempre necessariamente monca se non ha un aggancio nella realtà. In alcuni casi è stato testimoniato il desiderio di avere tanti contatti su Facebook e quindi di "collezionare" amici, che appaiono con le loro foto in miniatura nella pagina del proprio profilo; è quasi una sfida alla solitudine e un desiderio di sentirsi e apparire popolari. In effetti è da non sottovalutare il desiderio di apparire estroversi, richiesti, cioè, in altre parole, amati. Avere molti amici significa mostrarsi agli altri come socialmente attraenti. Anzi, a volte il proprio profilo serve proprio per "adescare" potenziali "amici", e le motivazioni possono essere di ogni tipo: dalle più legittime alle meno plausibili o accettabili. È ovvio, d'altronde, che, più cresce il numero degli "amici", più Facebook rischia di perdere di significato divenendo un semplice indirizzario un po' evoluto tecnologicamente. Se si hanno pochi amici dunque non ha senso mantenere un profilo Facebook, perché con questi ci si può sentire di frequente; se ne hanno troppi è pure inutile perché non è possibile tenere i contatti. È necessario un equilibrio. Su Facebook si tende, inoltre, a non negare l'"amicizia" a chiunque la chieda, anche se si tratta soltanto di vaghe conoscenze o addirittura di perfetti sconosciuti. La cosiddetta reciprocity rule (regola di reciprocità) a cui siamo abituati dice infatti: "Se una persona ti dà qualcosa devi cercare di ripagarla". La rete aumenta a dismisura gli eventi che fanno scattare questa regola di reciprocità, che invece in questa sede deve essere gestita con oculatezza e discrezione. La logica originaria di Facebook implicava un aggancio alla vita reale, in particolare a quella dell'ambiente di studio. L'uso ideale di Facebook, a nostro avviso, è quello che viene fatto a partire dalle relazioni reali. È una strada ormai importante per ritrovare compagni di scuola, amici di infanzia di cui non si sa più nulla, vecchie conoscenze. L'8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook e, considerando l'ambito di età predominante sulla piattaforma, è davvero difficile che un giovane adulto non trovi almeno qualche vecchio amico o un compagno di classe. È anche vero che spesso le persone si ritrovano all'improvviso, al di fuori di ogni contesto, magari saltando anni o decenni di vita nei quali sono state separate e senza contatti reciproci. Nel frattempo le persone che si contattano sono cambiate, e sarebbe un errore appiattire tutti gli "amici" in una sorta di contemporaneità totale. Se però la piattaforma viene usata con una consapevolezza delle relazioni, è certo che essa diventa una occasione interessante per consolidare rapporti che a causa della distanza o per altri motivi rischiano di indebolirsi, oppure per recuperare rapporti che la vita ha allentato. Non dimentichiamo che l'uso ordinario del telefono cellulare o delle e-mail sono fenomeni relativamente recenti e quindi è possibile che, con i cambi di domicilio e le varie vicende della vita, persone prima in contatto poi si perdano di vista. Facebook è una realtà sempre più importante della rete e conferma che la logica fondamentale del web è quella relazionale, sociale. Questa piattaforma, sebbene peculiare perché tutta centrata sulle relazioni, non è affatto l'unica. È semmai il fenomeno emergente, la punta di iceberg di una realtà più ampia, che ha in piattaforme come Myspace, Flickr, YouTube, Linkedin, Anobii, Ning, Plaxo, Hi5, Baidu Space, Orkut, Friendster, Bebo, Netlog, Imeem, Catolink, altri luoghi di aggregazione sociale, a volte di settore, rilevanti e frequentati. E non dimentichiamo che esistono anche network "locali" come, ad esempio, Xiaonei, fondata nel dicembre 2005 da un gruppo di studenti della Qinghua University di Pechino, la quale dal novembre 2007 è la piattaforma di social network più popolare tra gli studenti cinesi, con quindici milioni di utenti registrati. Il fenomeno Facebook, peculiare per caratteristiche, successo e rapidità di diffusione, più di altri ha fatto comprendere come i rapporti tra le persone siano al centro del sistema e dello scambio dei contenuti, che sempre più appaiono in rete fortemente legati a chi li produce o li segnala. Riemergono dunque con forza i concetti di persona, autore, relazione, amicizia, intimità. Ma, detto questo, occorre comprendere bene come questi concetti si modifichino e si evolvano a causa della rete. La vera novità di Facebook non è in tutti i servizi che offre e sempre di più offrirà perché è una piattaforma aperta al contributo libero di chi vuole sviluppare applicazioni. Tutti questi sono e resteranno arricchimenti di un nucleo centrale: la connessione della singola persona, che appare in tutta la sua vita personale vincendo ogni forma di anonimato e di tutela della privacy (davvero la cosa più a rischio su queste piattaforme), con la sua rete di amici. Prima di Facebook e delle piattaforme a esso simili, internet era sostanzialmente una rete di pagine e di contenuti, non di persone. Le persone potevano contattarsi tra di loro e aggregarsi in newsgroup e mailing list, ma le relazioni umane in se stesse erano invisibili al web. Facebook, in fondo, incarna una utopia: quella di stare sempre vicini alle persone a cui teniamo in un modo o nell'altro, e di conoscerne altre che siano compatibili con noi. Ma l'utopia deve confrontarsi col rischio grave che cellulari e computer possano alla fine isolare e dare solamente una parvenza di relazione, non fatta di incontri reali. D'altra parte la tecnologia da sempre, a partire dall'invenzione dei messaggi di fumo o di strumenti come il telegrafo o il telefono, è un potente ausilio alle relazioni personali. In questo lungo processo che compone la storia delle comunicazioni umane, Facebook sta giocando il suo ruolo specifico: fa sì che internet diventi innanzitutto una rete di persone e accelera un processo che nel 2005 ha avuto nei blog uno dei suoi passaggi fondamentali. Facebook è dunque un momento significativo di questo processo, non certo però un punto di arrivo.
(©L'Osservatore Romano - 17 gennaio 2009)

giovedì 15 gennaio 2009

E' compiendo bene il proprio dovere che ogni battezzato realizza la propria vocazione alla santità.

Attraverso la "polizia" il papa ci parla a tutti di come rispondere alla vocazione alla santità nel quotidiano
Cari funzionari ed agenti, alla luce di questa salda speranza, il nostro quotidiano lavoro, qualsiasi esso sia, assume un significato e valore diverso, perché lo ancoriamo a quei valori perenni umani e spirituali, che rendono la nostra esistenza più serena ed utile ai fratelli. Per quanto, ad esempio, concerne la vostra opera di vigilanza, essa può essere vissuta come missione. Un servizio al prossimo, concernente l'ordine e la sicurezza e, in pari tempo, un'ascesi personale, per così dire, una costante vigilanza interiore che esige di ben armonizzare la disciplina e la cordialità, il controllo di sé e la vigile accoglienza dei pellegrini e dei turisti che vengono in Vaticano. E tale servizio fatto con amore diventa preghiera, preghiera ancor più gradita a Dio quando il vostro lavoro risulta poco gratificante, monotono e faticoso, specialmente nelle ore notturne o nei giorni in cui il clima si fa pesante. Ed è compiendo bene il proprio dovere che ogni battezzato realizza la propria vocazione alla santità. (©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2009)

mercoledì 7 gennaio 2009

Come vivere questo anno in compagnia di Cristo: non uno sforzo


All' udienza di oggi il Papa ci insegna che non è uno sforzo morale ,ne tanto meno un intimismo spiritualista a farci stare vicino a Gesù risorto.
Il vero culto si attua nell'essere assimilati ,innestati in Lui e da questo trasformati
"...l'uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l'intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo "culto spirituale, ragionevole"? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti "uno in Cristo Gesù" (Gal 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr. Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. .."

sabato 3 gennaio 2009

Impariamo quale Poverta' scegliere nell Santa Madre di Dio


Un insegnamento di grande concretezza quello del Santo Padre .Ci insegna con estrema semplicità cosa fare in questi tempi di crisi .

La parola è una sola :Povertà.

Ma ce ne è una da scegliere ed una da combattere che in un gioco virtuoso si influenzano tanto da far crescere l'una e scomparire l'altra.

Operativamente consiste nel ritornare alla Sobrietà ed alla vera Solidarietà

Esse sono strumenti per staccare gli occhi dalle cose e dall'atteggiamento sottostante di ingordigia per riorientarli fiduciosi alla Provvidenza .

Il risultato sarà in proporzione la riscoperta di una vera Uguaglianza e Giustizia ,condizione per una vera Pace :Opus iustitiae

Ecco il grande insegnamento da ricordare ogni volta che l'umanità deraglia sul binario di una utopia ideologica ed astratta !!!

Andate a leggervela quì sotto!!!

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO E NELLA 42a GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
Pubblicato il 1 Gennaio 2009 di redazione
Venerati Fratelli,
Signori Ambasciatori,
cari fratelli e sorelle!
Nel primo giorno dell’anno, la divina Provvidenza ci raduna per una celebrazione che ogni volta ci commuove per la ricchezza e la bellezza delle sue corrispondenze: il Capodanno civile s’incontra con il culmine dell’ottava di Natale, in cui si celebra la Divina Maternità di Maria, e questo incontro trova una sintesi felice nella Giornata Mondiale della Pace. Nella luce del Natale di Cristo, mi è gradito rivolgere a ciascuno i migliori auguri per l’anno appena iniziato. Li porgo, in particolare, al Cardinale Renato Raffaele Martino ed ai suoi collaboratori del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, con speciale riconoscenza per il loro prezioso servizio. Li porgo, al tempo stesso, al Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, e all’intera Segreteria di Stato; come pure, con viva cordialità, ai Signori Ambasciatori presenti oggi in gran numero. I miei voti fanno eco all’augurio che il Signore stesso ci ha appena indirizzato, nella liturgia della Parola. Una Parola che, a partire dall’avvenimento di Betlemme, rievocato nella sua concretezza storica dal Vangelo di Luca (2,16-21), e riletto in tutta la sua portata salvifica dall’apostolo Paolo (Gal 4,4-7), diventa benedizione per il popolo di Dio e per l’intera umanità.
Viene così portata a compimento l’antica tradizione ebraica della benedizione (Nm 6,22-27): i sacerdoti d’Israele benedicevano il popolo “ponendo su di esso il nome” del Signore. Con una formula ternaria – presente nella prima lettura – il sacro Nome veniva invocato per tre volte sui fedeli, quale auspicio di grazia e di pace. Questa remota usanza ci riporta ad una realtà essenziale: per poter camminare sulla via della pace, gli uomini e i popoli hanno bisogno di essere illuminati dal “volto” di Dio ed essere benedetti dal suo “nome”. Proprio questo si è avverato in modo definitivo con l’Incarnazione: la venuta del Figlio di Dio nella nostra carne e nella storia ha portato una irrevocabile benedizione, una luce che più non si spegne e che offre ai credenti e agli uomini di buona volontà la possibilità di costruire la civiltà dell’amore e della pace.
Il Concilio Vaticano II ha detto, a questo riguardo, che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes, 22). Questa unione è venuta a confermare l’originario disegno di un’umanità creata ad “immagine e somiglianza” di Dio. In realtà, il Verbo incarnato è l’unica immagine perfetta e consustanziale del Dio invisibile. Gesù Cristo è l’uomo perfetto. “In Lui - osserva ancora il Concilio - la natura umana è stata assunta…, perciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime” (ibid.). Per questo la storia terrena di Gesù, culminata nel mistero pasquale, è l’inizio di un mondo nuovo, perché ha realmente inaugurato una nuova umanità, capace, sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una “rivoluzione” pacifica. Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze.
Cari amici, questa è la via evangelica alla pace, la via che anche il Vescovo di Roma è chiamato a riproporre con costanza ogni volta che mette mano all’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Percorrendo questa strada occorre talvolta ritornare su aspetti e problematiche già affrontati, ma così importanti da richiedere sempre nuova attenzione. E’ il caso del tema che ho scelto per il Messaggio di quest’anno: “Combattere la povertà, costruire la pace“. Un tema che si presta a un duplice ordine di considerazioni, che ora posso solo brevemente accennare. Da una parte la povertà scelta e proposta da Gesù, dall’altra la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e solidale.
Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergine aveva deposto il Neonato avvolto in fasce (cfr Lc 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. Perché? Lo spiega in termini popolari sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in un cantico natalizio, che tutti in Italia conoscono: “A Te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore. Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti fece amor povero ancora“. Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero. In questa stessa linea possiamo citare l’espressione di san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: “Conoscete infatti – egli scrive – la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (8,9). Testimone esemplare di questa povertà scelta per amore è san Francesco d’Assisi. Il francescanesimo, nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana. Ritornando alla stupenda sintesi di san Paolo su Gesù, è significativo – anche per la nostra riflessione odierna – che sia stata ispirata all’Apostolo proprio mentre stava esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi nella colletta in favore dei poveri. Egli spiega: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza” (8,13).
E’ questo un punto decisivo, che ci fa passare al secondo aspetto: c’è una povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va “combattuta” – come dice il tema dell’odierna Giornata Mondiale della Pace; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 2). Nel mio Messaggio ho voluto ancora una volta, sulla scia dei miei Predecessori, considerare attentamente il complesso fenomeno della globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala. Di fronte a piaghe diffuse quali le malattie pandemiche (ivi, 4), la povertà dei bambini (ivi, 5) e la crisi alimentare (ivi, 7), ho dovuto purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e dall’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo (cfr art. 26). Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di nuove (Messaggio cit., 8), perciò bisogna che la comunità internazionale e i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere alto il livello della solidarietà. L’attuale crisi economica globale va vista in tal senso anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo.
Occorre allora cercare di stabilire un “circolo virtuoso” tra la povertà “da scegliere” e la povertà “da combattere”. Si apre qui una via feconda di frutti per il presente e per il futuro dell’umanità, che si potrebbe riassumere così: per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali. Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di “fare uguaglianza”, riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti “con la sua povertà”, san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà. Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito. Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana.
Cari fratelli e sorelle, penso che la Vergine Maria si sia posta più di una volta questa domanda: perché Gesù ha voluto nascere da una ragazza semplice e umile come me? E poi, perché ha voluto venire al mondo in una stalla ed avere come prima visita quella dei pastori di Betlemme? La risposta Maria l’ebbe pienamente alla fine, dopo aver deposto nel sepolcro il corpo di Gesù, morto e avvolto in fasce (cfr Lc 23,53). Allora comprese appieno il mistero della povertà di Dio. Comprese che Dio si era fatto povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d’amore, per esortarci a frenare l’ingordigia insaziabile che suscita lotte e divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere così disponibili alla condivisione e all’accoglienza reciproca. A Maria, Madre del Figlio di Dio fattosi nostro fratello, rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera, perché ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae. A Lei affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – “da combattere”. Che esse non prendano il sopravvento! In tal senso i Pastori di quelle Chiese, in questi tristi giorni, hanno fatto udire la loro voce. Insieme ad essi e ai loro carissimi fedeli, soprattutto quelli della piccola ma fervente parrocchia di Gaza, deponiamo ai piedi di Maria le nostre preoccupazioni per il presente e i timori per il futuro, ma altresì la fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti, non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete all’aspirazione diffusa a vivere in pace, in sicurezza, in dignità. Diciamo a Maria: accompagnaci, celeste Madre del Redentore, lungo tutto l’anno che oggi inizia, e ottieni da Dio il dono della pace per la Terrasanta e per l’intera umanità. Santa Madre di Dio, prega per noi. Amen.
Postato in: Benedetto XVI, Omelie