domenica 27 febbraio 2011

La provvidenza: Una Madre per noi!

Non affannarsi, non preoccuparsi, non seguire false soddisfazioni!
Sì, ma come?
il Papa ci invita ad abbandonarci a Dio Padre, che scopriamo in questa Provvidenza anche tenerissima Madre.E' Lui che ha creato il cuore delle madri!

Un amore che ci scruta in ogni fase, che non ci abbandona e che se ci lascia un momento la mano è per farci camminare con le nostre gambe e renderci conto verso quale direzione vogliamo veramente andare .

Dobbiamo pensare e fare sempre memoria questa settimana di questo appassionato amore e sorprenderci nel vederlo. Chiediamo questo a Lui stesso!

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Il Papa ricorda all’Angelus che non si possono servire due padroni: Dio e la ricchezza; invita quindi a vivere con semplicità e sobrietà



Non si possono servire due padroni: Dio e la ricchezza. Il Papa all’Angelus chiede di avere fede nella Provvidenza e di adottare uno stile di vita semplice e sobrio, nel rispetto del Creato. Il servizio di Roberta Gisotti:RealAudioMP3

Avere fiducia nella Provvidenza e affidarle tutte le angosce, difficoltà e preoccupazioni per il futuro. L’invito di Benedetto XVI, ispirato dalle parole di Isaia nella liturgia domenicale, e dal Vangelo di Matteo, dove Gesù esorta i suoi discepoli a non preoccuparsi delle cose di cui vanno in cerca i pagani, di non chiedersi dunque “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo” e a confidare nel Padre celeste, che conosce i nostri bisogni. Un discorso questo di Gesu – ha osservato il Papa - che “potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo”, “di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria” .

“In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà”.

“E ciò – ha osservato il Santo Padre - è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo.”

“La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani”.

“E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, - ha aggiunto Benedetto XVI - pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni”:

“un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù.”

E’ proprio infatti, “la relazione con Dio Padre - ha spiegato il Papa - che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione.

“Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio”.

Alla Madre della divina Provvidenza Benedetto XVI ha affidato le nostre vite, il cammino della Chiesa, le vicende della storia.

“In particolare, invochiamo la sua intercessione perché tutti impariamo a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nella quotidiana operosità e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia”.

Dopo la preghiera mariana, i saluti nelle varie lingue rivolti ai fedeli e turisti raccolti in piazza S. Pietro. Un indirizzo particolare è andato alla rappresentanza giunta in occasione della Giornata internazionale per le malattie rare, cui il Papa ha assicurato una preghiera speciale, augurando passi avanti per la ricerca in questo campo. Giornata che verrà celebrata domani sotto lo slogan “Rari ma uguali”.

venerdì 25 febbraio 2011

Il futuro dell' Amicizia

Grazie al Padre Lombardi che proprio in questo giorno in cui la liturgia richiama al senso profondo della Amicizia, siamo invitati ad aprire gli infiniti confini del Cuore e della Ragione !!


Non paura ma amicizia: l'editoriale di padre Lombardi sulle tensioni nei Paesi arabi



Sugli avvenimenti che in queste settimane stanno scuotendo i Paesi arabi si sofferma il nostro Direttore, padre Federico Lombardi, nel suo editoriale per Octava Dies, il settimanale informativo del Centro Televisivo Vaticano:RealAudioMP3

Le violenze che accompagnano – in particolare in Libia – la resistenza all’estendersi del movimento di trasformazione della situazione politica nei Paesi arabi sono naturalmente fonte di grandissimo dolore per la sofferenza delle vittime e delle popolazioni, oltre che di preoccupazione sugli esiti del processo in corso, poiché la violenza rischia sempre di rendere molto più difficile la pacificazione. Certamente nei molti paesi interessati si tratta di una grande rivoluzione, che con occhio di speranza esperti osservatori vedono come possibile “primavera del mondo arabo”. I popoli occidentali riconoscono di esserne stati colti in gran parte di sorpresa. Molti capiscono che ogni vera crescita dei popoli arabi nella libertà e nella democrazia deve nascere anzitutto dal loro interno, senza interferenze esterne controproducenti. Altri hanno soprattutto paura e tendono a chiudersi in difesa. A noi sembra che oltre al doveroso rispetto occorrano disponibilità e iniziativa, per l’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà che ogni trasformazione profonda porta con sé, e poi l’amicizia e il dialogo fra i popoli e le culture, oggi più che in passato.

Nella richiesta di novità da parte dei giovani vi sono due componenti importanti da tener presenti. Grazie ai legami con l’emigrazione, molti hanno un’idea positiva del mondo europeo, dei diritti umani, della democrazia e della libertà. Grazie alle nuove possibilità di comunicazione, molti si sentono aperti al dialogo e desiderosi di inserirsi in una comunità mondiale. Come sempre, le nuove possibilità sono connesse anche a dei nuovi rischi. Ma se non sono utilizzate per i loro aspetti positivi, quelli negativi prevarranno certamente.

Se vicino a noi, sulla sponda meridionale di quell’ormai strettissimo mare che è il Mediterraneo, vi sono innumerevoli giovani desiderosi di crescita umana in maggiore libertà, non possiamo non fare tutto quanto è in noi per entrare senza paura in dialogo positivo con loro, imparando a vicenda le nostre diverse lingue.

mercoledì 23 febbraio 2011

Alza gli occhi a Dio : Bellarmino

«O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita delle cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa».
l Bellarmino insegna con grande chiarezza e con l’esempio della vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore.

Rondoni: Maghreb provocazione alla Libertà

Libertà, gridano. Che sveglino la nostra

Libertà, gridano. E ne parla il web, ne parlano i nostri giornali. Le folle che stanno sfidando regimi e bombe, decennali assetti di potere, interrogano la nostra libertà. Si sottopongono a pericoli e violenze in tutto il Maghreb e in parte del mondo arabo per il pane e per la libertà. Vorrei che prima di tutte le possibili analisi politiche, del timore per scenari futuri, delle accuse alla speculazione sui prodotti primari, e prima della presa di coscienza delle conseguenze che specialmente in Italia si avranno, arrivasse, dritta come una spada, la grande questione: la libertà muove gli uomini. Anche là dove sembra impossibile.

Certo, queste sollevazioni chiedono pane insieme alla libertà. Situazioni divenuta intollerabili dal punto di vista sociale hanno acceso gli animi. Ma come sempre accade, la mancanza e la necessità di un bene particolare (il pane) ha fatto vedere in modo più lampante la mancanza di un bene più grande (la libertà). L’uomo è fatto così. Vuole sempre un bene più grande. La sua fame è infinita. Non di solo pane vive.

Ogni faccenda che riguarda la libertà è complicata. Perché la libertà è la cosa più profonda, più «cara» come dice Dante, più intima di un uomo. La sua parte inespugnabile. Può solo venderla o barattarla lui. Ma nessuno può spegnergliela. Però la libertà non si muove, non cerca la propria soddisfazione in una specie di ambiente puro. È sempre esposta al torbido, al parziale, all’interesse, alle passioni. Non esiste libertà in azione allo stato puro, se non nei santi. E anche i movimenti di libertà che si stanno esprimendo in queste dure giornate non sono "limpidi". Sarebbe stupido pretenderlo. Ma quando un uomo si muove per la libertà, interroga sempre tutti noi: tu per cosa ti stai muovendo? Noi, per cosa ci stiamo muovendo? E, anzitutto, ci stiamo muovendo? Pare che in molte zone della nostra società regni l’immobilità. Non solo nel senso della mancanza di cambiamenti significativi – pur di fronte a una crisi che se non il pane in molti casi ha tolto il companatico o anche il lavoro – ma nel senso di una assunzione di responsabilità, di sfida, di senso del rischio.

I giovani del Maghreb stanno rischiando molto per avere più libertà. E noi? I nostri giovani? Se in quei contesti il desiderio di libertà può spingere ad andare in piazza, qui a cosa ci sta spingendo? Le manifestazioni dei mesi scorsi nelle piazze italiane non hanno certo la tragica elementare bellissima forza di quelle in corso. Siamo obbligati ancora una volta a domandarci, noi che la libertà pensavamo di sapere cosa è, se ne abbiamo davvero una idea. Perché quei ragazzi che rischiando parecchio sono andati contro i loro regimi, lo han fatto perché li sentivano contrari alla loro aspirata realizzazione. La libertà non è la conquista di uno spazio vuoto, dove fare quel che si vuole – come appare spesso predicata qui da maestri del vuoto – ma la tensione a beni, a incontri che soddisfino il nostro essere uomini.

La libertà pura e impura, bellissima e torbida è ricerca di una soddisfazione. Un uomo che si ritiene materialmente o esistenzialmente "soddisfatto" non manifesterà nessuna voglia di cambiamento. Protesterà per questioni secondarie. Per interesse. Ma non sarà un uomo in movimento. Non avrà la durezza, la dolcezza, la tenacia di quel che vediamo in questi giorni, tra i fumi delle bombe e delle nostre analisi, spesso messe avanti per non lasciarci né ferire né interrogare davvero.
Davide Rondoni

lunedì 21 febbraio 2011

E la santità non è un'opera nostra : San Giovanni della Croce

lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 febbraio 2011

[Video]

San Giovanni della Croce

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù. Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.

Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un'umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima co­me infermiere nell'Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.

Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Giovanni di San Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall'affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell'Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni. Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. Α quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.

L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell'Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell'Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l'ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l'Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l'Ufficio in cielo”. I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.

Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d'amor viva.

Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d'amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l'anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell'anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell'unione con Dio nell'eternità.

L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l'itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell'anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l'azione divina, per liberare l'anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all'unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l'intenzione, la memoria e la volontà. La Notte oscura descrive l'aspetto “passivo”, ossia l'intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell'anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all'unione d'amore con Lui. San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall'anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.

Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono. Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all'uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all'uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all'amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l'insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l'anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l'uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all'azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno. Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l'anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l'anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall'amore divino e si rallegra completamente in esso.

Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell'ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell'ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle. E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l'andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un'opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell'apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.

domenica 20 febbraio 2011

Partecipazione della vita divina


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 20 febbraio 2011

Cari fratelli e sorelle!

In questa settima domenica del Tempo Ordinario, le letture bibliche ci parlano della volontà di Dio di rendere partecipi gli uomini della sua vita: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» - si legge nel Libro del Levitico (19,1). Con queste parole, e i precetti che ne conseguono, il Signore invitava il popolo che si era scelto ad essere fedele all’alleanza con Lui camminando sulle sue vie e fondava la legislazione sociale sul comandamento «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Se ascoltiamo, poi, Gesù, nel quale Dio ha assunto un corpo mortale per farsi prossimo di ogni uomo e rivelare il suo amore infinito per noi, ritroviamo quella stessa chiamata, quello stesso audace obiettivo. Dice, infatti, il Signore: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Ma chi potrebbe diventare perfetto? La nostra perfezione è vivere con umiltà come figli di Dio compiendo concretamente la sua volontà. San Cipriano scriveva che «alla paternità di Dio deve corrispondere un comportamento da figli di Dio, perché Dio sia glorificato e lodato dalla buona condotta dell’uomo» (De zelo et livore, 15: CCL 3a, 83).

In che modo possiamo imitare Gesù? Gesù stesso dice: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). Chi accoglie il Signore nella propria vita e lo ama con tutto il cuore è capace di un nuovo inizio. Riesce a compiere la volontà di Dio: realizzare una nuova forma di esistenza animata dall’amore e destinata all’eternità. L’apostolo Paolo aggiunge: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3,16). Se siamo veramente consapevoli di questa realtà, e la nostra vita ne viene profondamente plasmata, allora la nostra testimonianza diventa chiara, eloquente ed efficace. Un autore medievale ha scritto: «Quando l’intero essere dell’uomo si è, per così dire, mescolato all’amore di Dio, allora lo splendore della sua anima si riflette anche nell’aspetto esteriore» (Giovanni Climaco, Scala Paradisi, XXX: PG 88, 1157 B), nella totalità della vita. «Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3).

Cari amici, dopodomani, 22 febbraio, celebreremo la festa della Cattedra di San Pietro. A lui, primo degli Apostoli, Cristo ha affidato il compito di Maestro e di Pastore per la guida spirituale del Popolo di Dio, affinché esso possa innalzarsi fino al Cielo. Esorto, pertanto, tutti i Pastori ad «assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli» (Lettera Indizione Anno Sacerdotale). Invochiamo la Vergine Maria, Madre di Dio e della Chiesa, affinché ci insegni ad amarci gli uni gli altri e ad accoglierci come fratelli, figli dello stesso Padre celeste.

Antonio Socci:Grande Giudizio su Benigni e l'Unità d'Italia

Mi ritrovo completamente nel giudizio di Antonio Socci su quello che è stata la performance di Benigni al Festival di San Remo.

Grazie Antonio Socci!


Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?

Posted: 19 Feb 2011 02:10 AM PST

Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.

Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.

Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.

Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.

Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”.

Ma chissà se ascolteranno.

Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.

In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).

Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.

E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.

E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.

Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.

Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.

Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.

Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).

In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).

Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.

Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.

Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).

C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.

Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.

Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.

Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).

Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).

Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.

Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.

Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.

Antonio Socci

Da Libero, 19 febbraio 2011

sabato 19 febbraio 2011

Formigoni ed un futuro PPE

Così Formigoni risponde sul Sussidiario.net (18/2/11) circa gli orizzonti ultimi di una politica con un respiro Europeo..

La sua proposta di realizzare la “sezione italiana del Ppe” è ancora valida?

Assolutamente sì, sto continuando a lavorarci con vari esponenti del Pdl, tra cui Alfano, Fitto, Saverio Romano e molti altri. Non solo, il nostro partito ha preso l’iniziativa di formare una fondazione per il Partito Popolare Europeo, proprio perché ha intuito la bontà della proposta. È assurdo, a mio parere, che partiti che siedono insieme a Strasburgo siano divisi in Italia. Certo, non possiamo nasconderci che sarà un lavoro lungo e doloroso perché la separazione e la contrapposizione è nata su precise responsabilità. Sono però convinto che il futuro del bipolarismo italiano vedrà da una parte i partiti che si riconoscono nel Ppe (alleati con un partito territoriale come la Lega Nord, che non è affatto lontana dalla cultura del popolarismo europeo) e dall’altra, me lo auguro, una moderna socialdemocrazia con la messa al bando dei giustizialisti e degli estremisti.

I più sono però convinti che quando verrà a mancare il collante di Berlusconi il centrodestra rischierà l’implosione...

Guardi, le nostre idee non moriranno mai. I nostri ideali sono quelli del Partito Popolare Europeo: la persona, la famiglia, la libertà, la sussidiarietà, il lavoro, l’impresa. Non solo, anche la forma del Pdl potrà continuare ad andare avanti, a patto che ognuno di noi sappia essere generoso e che non prevalgano personalismi e invidie.


venerdì 18 febbraio 2011

18 febbraio 2011

L'ONDA LUNGA DEL MAGHREB

Il contagio terrorizza Hamas
Blindato il confine a Rafah

È tutto giallo, eh? La sabbia del deserto, il cemento, la polvere. Fa impressione, vero? Chi mai si sognerebbe di entrare, sembra la porta dell’inferno…». Marwan ha ragione. Vista da fuori Ra­fah, con la sua coltre di polvere ocra, non ha niente di invitante. Se è per questo a giro di sguardo non c’è davvero nulla di affascinante in que­sto lembo estremo della Striscia di Ga­za, di qua la periferia diroccata della Ra­fah palestinese, di là, tremolante come un miraggio lontano, la Rafah egiziana, a sinistra la lunga linea grigia del deser­to e l’inizio di quel confine lungo 270 chilometri tra Egitto e Israele che sta di­ventando l’incubo delle autorità di Tel Aviv e l’ossessione dei militari.

Quello che la mia guida Marwan non dice, e come potrebbe altrimenti?, è che im­provvisamente il mondo sembra esser­si capovolto, i conti non ci tornano, tut­to è sottosopra: non solo nessuno ci vuole entrare a Rafah, ma nessuno rie­sce più a uscire da quando Hamas, che governa la Striscia dal 2007, ha schiera­to gli uomini delle brigate Ezzedin al-Qassam sul confine, su quel “Corridoio Philadelphia” che da sempre è la valvo­la di sfogo e di comunicazione con il mondo esterno. Hamas che serra i battenti. Perché? «Ma è semplicissimo: degli egiziani non ci si può più fidare, nella Rafah al di là del confine domina il caos totale, la polizia non controlla più niente, ci sono ban­de di beduini che intercettano le mer­ci, rapiscono le persone, chiedono il piz­zo. E allora abbiamo chiuso la porta. Ad­dio valvola di sfogo».

Ora quel confine è presidiato dai duri di Hamas, con i lo­ro treppiede e i binocoli da lunga di­stanza poggiati sopra, a centellinare o­gni metro del confine, nube d’ocra per­mettendo. Da lontano, non sembrano così diversi dai soldati israeliani. A po­che miglia di distanza i soldati con la stella di David hanno la medesima ap­prensione. All’inizio del mese qualcuno ha fatto saltare parte del gasdotto el-Arish nel Sinai settentrionale, lasciando Giorda­nia e parte di Israele – che dal gas egi­ziano ricava il 40% del proprio fabbiso­gno – con un deficit improvviso di e­nergia. Per questo, in deroga agli accor­di di Camp David, Netanyahu ha ac­cettato di far defluire 800 soldati dell’e­sercito egiziano nella zona.

La polizia non basta più. Ma nemmeno l’Idf (Israel Defense Forces) sembra sufficiente. Pensiamo solo alla figuraccia rimedia­ta di recente dal direttore dell’intelli­gence, Aviv Kochavi, che alla vigilia del­l’insurrezione egiziana dichiarava da­vanti alla Knesset: «La stabilità di Mu­barak non è in discussione, e i Fratelli musulmani non sono ancora prepara­ti per ambire alla successione». Tutto sbagliato, come si è visto, e ora la pau­« ra riaffiora silenziosa, a Tel Aviv come a Gerusalemme, lontane assai da quel confine del Sinai, ma vicinissime psi­cologicamente a quelle Askhelon, a quelle Sderot abituate a fare i conti quo­tidianamente con Gaza. Ma per una delle perverse torsioni del­la Storia, in questo momento Hamas mostra di avere il medesimo patema, le medesime paure, forse i medesimi in­teressi di Israele di fronte all’incognita egiziana.

Come ha detto ieri il premier israeliano, «speriamo per il meglio, ma prepariamoci al peggio». Non scherza­no, i signori di Hamas. Asma al-Ghoul, la blogger più famosa della Striscia, ne sa qualcosa. Nel dicembre scorso suo fratello Mustafà è stato arrestato dalla polizia di Gaza per aver preso parte at­tiva nell’organizzazione no profit Sha­rek 30 Youth Forum, embrione di quella protesta simbolica che per prima l’an­no scorso ha scosso il torpore della Stri­scia. «Erano tutti giovani – dice – chie­devano di vivere, di essere liberi dalle catene, anche da quelle di Hamas, non solo di Israele». È finita male. Hamas ha compiuto arresti, devastato la sede, ac­cusato i giovani di Sharek «perché se­condo loro – continua Asma – insegna­no danza, ginnastica e immoralità alle ragazze».

C’è bel altro. Un mese fa un giornalista palestinese vicino a Fatah, Muheib a-Nawati, è scomparso dopo il suo arrivo in Siria. Aveva scritto un libro: “Hamas dall’interno”. Non è facile spiegare cos’è diventata Ga­za dopo la rivoluzione egiziana. «Una fortezza, certo, Hamas ha molta paura – dice Chantal Meloni, ricercatrice ita­liana di diritto penale già consulente del Tribunale dell’Aja e di casa a Gaza – per­ché deve tenere insieme spinte con­trapposte: di qua gli estremisti e i radi­cali, di là la gente che l’ha votata e for­se non la rivoterebbe più ma che ora è intrappolata in questa specie di regi­me. Che va capito fino in fondo, perché anche in Cisgiordania l’Anp di Abu Ma­zen fa le stesse cose, arresta tortura, soffoca il dissenso». In effetti qualcosa in comune i ribelli di Hamas e i loro fra­telli separati di Fatah ce l’hanno dav­vero: entrambi hanno bastonato di san­ta ragione i palestinesi che nei giorni scorsi erano scesi in piazza inscenan­do manifestazioni anti-Mubarak. «La choccante paura della novità, del­l’incertezza – spiega Graeme Banner­man del Middle East Institute di Geru­salemme – del non sapere cosa succe­derà domani. Va compresa anche I­sraele: trentadue anni di relativa sicu­rezza alla frontiera grazie agli accordi di Camp David che si sgretolano in tre set­timane».
Un trattato che a suo modo faceva co­modo anche ad Hamas, che con i tunnel di Rafah accumulava un giro d’af­fari da 600 milioni di dol­lari all’anno in un’area dominata da una disoc­cupazione cronica che tocca il 45% e che al tem­po stesso ha creato una casta di “signori del tun­nel”: mercanti di cemen­to, di utensili, di benzina che facevano grassi pro­fitti con l’Egitto e con la Striscia, garantendo al contempo la costante manutenzione di quelle gallerie sotterranee (al­meno 1200 ai tempi d’o­ro, oggi solo 500 in atti­vità e solo 100 in funzio­ne). Hamas si limitava a imporre i prezzi politici: 36 centesimi di euro al li­tro la benzina, contro l’euro e 40 centesimi che fa pagare Abu Mazen in Cisgiordania. «Ma quel meccanismo ora è saltato – dice Chan­tal Meloni – e la crisi dei prezzi strangola ancora di più la Striscia».

Le merci che passano dai tunnel ora costano molto di più, i beduini ci mettono una sovrat­tassa, non tutto arriva intatto. Nemme­no il cemento, che vediamo uscire dai tunnel in grossi fagotti sbrecciati da cui escono volute grigie che si mescolano alla polvere del deserto e per lo meno of­frono una spiegazione certa a quella nu­be giallognola che sovrasta Gaza, una cappa simbolica che racchiude paure e ipocrisie sopra l’angolo più densamen­te popolato del mondo. Triste parabola quella di Hamas: quan­do vinse le elezioni politiche nel 2007 la parola d’ordine era: basta con la corru­zione di Fatah. Ora al movimento che fu di Yasser Arafat la Hamas di tre anni do­po somiglia come una goccia d’acqua: divieti, proibizioni, arresti, affari sotto­banco, privilegi accordati ai soli diri­genti del partito (gli unici a cui sono sta­te interamente ricostruite le abitazioni colpite nel 2009 dai bombardamenti i­sraeliani durante l’operazione Piombo Fuso). Sembra inverarsi cosi la diagno­si impietosa di Noam Chomsky: il Me­dio Oriente ha visceralmente paura del­la democrazia, dell’indipendenza, del­la libertà di pensiero. Ci sarà mai un’uprising, una solleva­zione dentro Gaza?

«Non credo – dice la giurista dell’Aja – sono troppo rasse­gnati, troppo impauriti». Israele lo sa bene, e infatti i suoi timori sono altri. Politici e militari pensano più ad al-Qae­da, ai Fratelli musulmani, alle navi ira­niane in navigazione verso Suez, pen­sano ai terroristi evasi dalle prigioni e­giziane e riapparsi sugli schermi delle Tv Hezbollah in Libano o accolti con trionfo a Gaza. E pensano al contagio che si può propagare, come un’onda si­smica che attraversa il Sinai e il Negev, nelle terre inquiete di quell’altro vicino fino a ieri considerato sicuro, l’ultimo che gli rimane: la Giordania hascemita. Ed è laggiù, nell’ormai inquieto regno di Abdallah II che stiamo per recarci.

mercoledì 16 febbraio 2011

La Pazienza di Cristo di amarci e farci suoi

nell nostro mondo si avverte una coscienza scettica , un'inerzia nei confronti del buono e del vero.
Siamo quasi stanchi di invitare gli altri ad una possibilità di novità nella vita .
Ma oggi ( MC 8:il cieco di Betsaida) Cristo ci dice che Lui non è stanco e continua nonostante gli ingrati stop a cui lo sottoponiamo, l'ingrato rifiuto di ringraziamento delle opportunità che ci offre .
Allora la sua opera di Salvezza, pur con fatica, affronta fasi di progressiva illuminazione nostra in attesa di un definitivo nostro abbandono.
ilsussidiario.net | il quotidiano approfondito

LAICITA’/ John Waters: così l’"incredulo" san Tommaso ci insegna a tornare cristiani



martedì 15 febbraio 2011


Mi viene spesso da pensare che San Tommaso, quello chiamato “l’incredulo”, non meriti la cattiva nomea che lo accompagna. Se mi fosse stato chiesto da ragazzo, quando sentivo continuamente le storie del Vangelo con le loro interpretazioni, non penso che avrei messo Tommaso molto lontano da Giuda nella lista dei cattivi. Ma è giusto?
Tommaso l’incredulo era uno dei dodici apostoli di Gesù, conosciuto anche come Didimo, che in greco significa “gemello”, come Tommaso in ebraico. L’appellativo di “incredulo” gli fu dato in seguito al suo iniziale rifiuto di credere che Cristo fosse risorto da morte, fino a che non ne vide le piaghe.

Il Vangelo di Giovanni ci dice che, dopo la Resurrezione, Gesù apparve ad alcuni discepoli quando Tommaso non era presente. Dice Giovanni (20,25): “Gli dissero allora gli altri apostoli: ‘Abbiamo visto il Signore!’ Ma egli disse loro: ‘Se non vedo nelle sue mani i segni dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò’”.
Otto giorni dopo, Gesù riapparve ai Suoi discepoli, e questa volta c’era anche Tommaso: “Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse ‘La pace sia con voi!’ Poi disse a Tommaso: ‘Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!’ Rispose Tommaso: ‘Mio Signore e mio Dio!’ Allora Gesù gli disse: ‘Perché mi hai visto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno!’” (Giovanni 20,26-29).

Queste parole di Gesù vengono di solito interpretate come una sorta di condanna per coloro che hanno bisogno di prove per credere. Tuttavia, a una lettura più attenta, mi sono reso conto che Gesù non è sprezzante con Tommaso come invece pensavo. In realtà, Egli è molto gentile e paziente, permettendo a Tommaso di esaminare le Sue ferite e dicendo che è bene che ora creda, affermando al contempo la bontà di coloro che credono senza aver visto, li chiama “beati”, ma non dice che Tommaso lo è di meno.
La distinzione che Gesù fa non è tra chi vuole prove e chi ne fa a meno, ma tra chi ha visto di persona e chi invece non ha visto: a questa seconda categoria appartengono quasi tutti i cristiani finora vissuti, compresi tutti noi che viviamo ora.

Riflettendo, non penso che Gesù volesse dire che vi è maggior valore se crediamo senza prove, e ancor meno che volesse attribuire maggior valore a un credere non fondato su prove, ma che volesse distinguere tra due diversi tipi di prova: quella data dagli occhi e quella fondata su testimoni attendibili.
Se la fede è basata sul mero sentimento o su un concetto superficiale di obbedienza, diventa meno solida e più esposta allo scetticismo. La migliore forma di fede è quella che esplora liberamente l’intero campo del dubbio, prendendo in considerazione tutte le prove disponibili, come fece Tommaso.

La fede dei cristiani di oggi non è certo digiuna di evidenze. Abbiamo la dura evidenza della realtà, l’evidenza della nostra esistenza e della sua misteriosa natura, l’evidenza della risposta meno presa in considerazione tra quelle che possiamo dare: la meraviglia per “ciò che è”. Abbiamo anche l’evidenza dei Vangeli e delle centinaia di testimonianze che contengono, le loro storie che, coscientemente o no, abbiamo ponderato con la nostra ragione fin dall’infanzia, valutando la loro plausibilità nello stesso modo in cui Tommaso l’incredulo affrontò le prove che aveva di fronte. Avendo dato voce alle più profonde incertezze della posterità, è diventato per noi un testimone più importante che tanti altri.

Da molti altri riferimenti nei Vangeli apprendiamo che Tommaso, in diverse occasioni, si è dimostrato uno dei più decisi tra gli apostoli, coraggioso e fedele. Quando gli altri cercavano di trattenere Gesù dal tornare a Betania per far risuscitare Lazzaro, dato che gli abitanti di quella città avevano cercato di lapidarlo (Giovanni, 11,8), Tommaso prorompe: “Andiamo anche noi a morire con Lui!” (Giovanni 11,16). Ed è ancora lui che pone a Gesù una delle più famose domande del Vangelo: “Signore non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”. Gesù gli risponde: “Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Giovanni 14,5-6).

In questa nostra epoca incredula come poche altre, in cui una falsa forma di ragione ha tagliato fuori la nostra cultura dal significato di molto di ciò che è evidente, l’importanza di Tommaso l’incredulo è tale da poter essere eletto a patrono della cultura odierna, contrassegnata dal secolarismo e dal suo relativismo, dal suo concetto ridotto di ragione e dalla sua tendenza al pessimismo come prima risposta di fronte alla realtà. È il “gemello” del cristiano moderno, il mio gemello.. e, magari…anche il tuo?
“È un San Tommaso” è una frase usata nella nostra cultura per indicare uno che rifiuta di credere a un’evidenza diretta, fisica, personale, e in questo senso si può dire che inglobi interamente la posizione dell’attuale cultura. In realtà, un ragionevole scetticismo non è affatto un tratto deprecabile in una persona intelligente. Come il Papa continua a ricordarci, l’intelligenza della fede deve diventare anche intelligenza della realtà. Non vi è nulla da temere dalla ricerca di una prova: il problema è come arriviamo a valutare questa prova e cosa scegliamo di fare con essa.

Non credo che Gesù, con la Sua risposta a Tommaso, volesse invitarci a ridurre questo desiderio di prove in favore di una cieca adesione all’idea moralistica che il credere di per sé sia preferibile a un approccio rigoroso nella ricerca della verità. Al massimo, voleva forse suggerire che, piuttosto che sospendere la nostra apertura al credere, è più utile per noi sospendere il nostro scetticismo fino a che non abbiamo considerato tutti gli aspetti e non solo ciò che ci dicono i nostri occhi. Se qualcosa veniva condannato era quell’empirismo che esige la totale dimostrabilità per giustificare l’accettazione di una proposta.
Per questo mi domando se non siamo stati ingiusti verso Tommaso l’incredulo. Forse, nel suo scetticismo, ci ha dato una testimonianza alla quale possiamo aderire in modo più concreto e, con la sua insistenza sulle prove, ci ha proposto un esempio da seguire e una storia in cui lo scetticismo è stato dissolto da un evento che, testimoniato dal Vangelo di Giovanni, permette anche a noi di credere anche senza “vedere” personalmente.



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domenica 13 febbraio 2011

Io non ci andrò:Marina Corradi

infatti da quanto ci riferisce Marina Corradi non si capisce perchè ,anzi lo si capisce benissimo, ,chiamiamola con il vero nome: Strumentalizzazione politica e basta .Da quanto esiste il Velinismo?quanto tempo fa Renzo Arbore satireggiava con le sue ragazze Coccodè o quanto tempo ancora gli italiani hanno accettato il passatempo delle ragazze Drive In o Colpo Grosso,vi ricordate?Proprio nell'epoca attuale si avverte una retromarcia laica sui costumi sorprendente e soprattutta da parte di coloro che si facevano tenaci antagonisti di ogni forma di buon vivere tradizionale ...mah!



12 febbraio 2011

Io non ci andrò, e rifletto


Quelle domande che pesano

Alle donne che scenderanno in piazza domani, in una sorta di sollevazione contro l’immagine di donna che esce da un mese di cronache di feste e confessioni di escort, vorrei porre qualche domanda. Il “manifesto” della iniziativa parla di «baratro culturale», di «Italia ridotta a un bordello» – ci scusino i lettori, ma questo è lo “spirito del tempo”. Qualcuno, qualcuna si è accorta ora delle code davanti agli studi dove si scelgono le future vallette, o del diffuso sogno di entrare nella “scuderia” di Lele Mora, sogno per cui alcune sono disposte a tutto. «Se non ora, quando», è il grido della manifestazione di domani. E sembra l’esclamazione di chi tardivamente si sia guardato attorno, scoprendo che l’aria che tira non gli piace.

La prima domanda è dunque dove erano tante di quelle che sfileranno domani, in questi vent’anni. La maggior parte di loro proviene da quella cultura che è il lascito tardivo di femminismo e Sessantotto: la cultura del «Io sono mia», che predicava la piena autonomia di una donna finalmente liberata da condizionamenti del passato, maschilisti o – peggio – religiosi. La ricordiamo l’ebbrezza di questa liberazione, trent’anni fa: libera, si proclamava quella generazione di ventenni, di fare politica, di studiare e lavorare; libere nel rifiuto orgoglioso di essere “donne oggetto”; libere dal matrimonio come destino obbligato; libere, grazie alla pillola e all’aborto legale, dall’antico giogo di maternità non volute.
La seconda domanda allora è che cosa è stato ereditato, di queste vere o presunte libertà, dalle figlie. Qualcosa deve essersi inceppato nella trasmissione generazionale, se non poche, e soprattutto nelle classi sociali più modeste, declinano questa libertà come totale disponibilità di se stesse, anche di farsi guardare come cose, se occorre, e se ne vale la pena. È il “sistema” che sfrutta e usa le donne, si griderà in piazza – in quella piazza in cui io non andrò. Però quelle sono figlie nostre; cresciute davanti alla tv forse, ma educate da noi. Avete letto il sondaggio di Ilvo Diamanti che chiede agli italiani se considerano gli atteggiamenti di Berlusconi «offensivi contro le donne»? Solo il 37 per cento delle ragazze risponde di sì, e solo il 28 per cento delle trentenni. Insomma, la prospettiva di farsi meteorine in feste di vip, o di usare la bellezza per “arrivare” in fretta non è poi così riprovata. Plagiate da vent’anni di veline? Ma le famiglie, e le madri, dov’erano? Scoprire all’improvviso che le bambine di dodici anni, nelle famiglie più abbandonate ma non solo in quelle, sognano davanti allo specchio “quel” successo; e non sanno, ma ancora per poco, cosa si fa per agguantarlo. Ve ne accorgete oggi? Noi cattolici retrogradi eravamo dunque all’avanguardia?

Su Repubblica però una docente universitaria pone questa distinzione: «Una cosa è che uno scelga i valori del sedere, come la cosa migliore di sé e più preziosa; tutt’altra cosa è che glielo imponga un altro». Tipica declinazione di quel relativismo etico che è da anni il pensiero unico obbligatorio. Secondo il quale nulla è oggettivamente negativo; se una liberamente decide di vendersi, niente da dire. Ma allora cosa si scende in piazza a contestare domani? Le fanciulle, stelline, vallette, meteore che abbiamo visto sfilare sui giornali sono – per lo più – maggiorenni e capaci di intendere. E dunque? Forse il problema è più grande: ma davvero vendersi, o accettare di mostrarsi come un bell’oggetto – libera o no che sia la scelta – non è avvilente in sé, non è contrario alla dignità di una donna, o di un uomo? Non c’era forse qualcosa di primario, di oggettivo che si è buttato via insieme al resto trent’anni fa, quando si gridava «L’utero è mio e lo gestisco io»?. L’ultima domanda, la più importante, è: che cosa trasmettere a una figlia, perché non sogni, sotto sotto, di incontrare Lele Mora? Basterà parlare di “decenza”? (strano ritrovare in bocche laiche questo vecchio termine “bigotto”). Ciò che, crediamo, scrive su un figlio l’orgoglio di non essere in vendita mai è che si senta fin dal primo giorno unico, e amato, e non nato per caso, ma dentro un destino comune e buono; che sappia che quel destino è un compito che lo lega agli altri, e non è risolvibile nell’arbitrio del gioco più comodo o veloce. È la certezza dei cristiani autentici, e forse quella dei laici migliori – le cui speranze, però, sembrano oggi perse o sconfitte. Senza questa certezza del valore assoluto di ognuno, non stupisce che si concepisca di vendersi – e i modi poi, per donne e uomini, sono tanti. Se nessuno ti ha detto che tu non hai prezzo, e il tuo valore è infinito.
Marina Corradi