domenica 28 febbraio 2010

Dare un significato alla Influenza Suina


L'INSEGNAMENTO DELLA SUINA

Siamo al termine dell’emergenza dell’influenza suina, ed e’ tempo di riflessione. Possiamo quindi leggere con attenzione e discernimento i dati disponibili; questo perche’ senza dati non e’ possibile impostare un ragionamento che abbia il vero come obiettivo, anche se non e’ detto che i dati raccontino il vero nella sua interezza. A volte i dati sono uno strumento di osservazione, mentre la verità va scavata in fondo ad essi.A distanza di circa 40 settimane dall’inizio della pandemia, 212 Paesi risultano essere stati colpiti dal virus influenzale H1N1. I morti nel mondo sono circa 16.000, 10 volte meno della stima dei morti causati dall’influenza stagionale.In Italia si sono infettati circa 4.500.000-5.000.000 di persone (vale a dire un italiano su 12). Le sindromi respiratorie acute che hanno richiesto assistenza respiratoria sono state 455 (1 caso su 10.000) e i morti 228 (1 caso su 20.000 infettati). Viene riportato che l’influenza stagionale causa circa 6000-8000 morti all’anno in Italia, cifra di non facile acquisizione, data la difficoltà di reperire dati oggettivi che confermino questa stima, tuttavia largamente superiore alla mortalità della “pandemia” suina di quest’anno; essa e’ inoltre enormemente inferiore alle potenzialità letali dell’influenza aviaria. Per dare un riferimento, e’ in corso da tempo una epidemia, fortunatamente lenta e circoscritta, di influenza aviaria in Egitto: su 99 casi con diagnosi accertata di influenza aviaria H5N1, la mortalità e’ del 30%: un tasso crudo (ossia non corretto per altri parametri) di mortalità simile della pandemia “suina” avrebbe in teoria prodotto, solo in Italia, la morte di circa 1 milione e mezzo di persone. I vaccini somministrati in Italia sono stati circa 1.000.000, a fronte dei 24 milioni di dosi totali originariamente ordinati alla Novartis, con cui il Governo italiano ha siglato un contratto per circa 184 milioni di euro di spesa (cfr Corriere della Sera del 22/02/2010). Questa cifra e’ parte di un business mondiale presunto essere di vari miliardi di euro, che si somma alla cifra (inferiore, ma dello stesso ordine di grandezza) stanziata per l’acquisto del vaccino contro l’influenza stagionale. A fronte di tali cifre spese per il vaccino, sia la Roche sia la Glaxo Smith Kline, distributori dei due farmaci antiinfluenzali Tamiflu e Relenza, hanno dichiarato un netto incremento delle vendite nel 2009, in parte legate proprio a questi due farmaci.In sostanza, la spesa sanitaria mondiale per la pandemia influenzale e’ risultata comunemente e costantemente elevata (con l’eccezione, tra i Paesi sviluppati, della Polonia, che ha sempre rifiutato di acquistare il vaccino, scommettendo sulla benignità della malattia) per una malattia di fatto risultata essere piuttosto lieve. A causa di questa discrepanza, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e’ stata messa sotto tiro (anche dalla Commissione Europea), per la supposta leggerezza nella dichiarazione dello stato di pandemia, per i possibili rischi di conflitto di interesse (nei confronti delle aziende farmaceutiche) di alcuni dei suoi membri e consulenti, e per la valutazione, ritenuta da alcuni impropria, dell’andamento degli eventi.Ha sbagliato l’Italia? Credo di no. E’ stato applicato il principio di precauzione, che nello specifico ha suggerito di prepararsi al peggio, supportati in questo dalla posizione ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che non era possibile ignorare.Comunque, senza voler fare recriminazioni per ciò che è stato fatto, è chiaro che per tutti noi che operiamo nel campo della salute, il problema emerso con la suina è stata la necessità di imparare a guardare, a interpretare e a gestire un fenomeno che ci si presenta davanti in modo non ben definito nella nostra realtà, senza esasperarlo né minimizzarlo. Gli strumenti ci sono. Infatti non è rispondendo a partire dalla propria soggettività – drammatica oppure ottimistica di previsione – che si danno risposte efficaci. La prevenzione, la conoscenza, e l’intelligenza possono aiutare. - Prevenzione: perché un monitoraggio più attento e temporalmente corretto avrebbe forse permesso alle autorità internazionali di evidenziare il “focus” del problema (gli allevamenti intensivi di maiali in territorio messicano, molti su commissione di aziende statunitensi). Un attento e continuo monitoraggio andrà fatto nel futuro in tutti quegli allevamenti, soprattutto (ma non solo) in Asia orientale, in cui la promiscuità animale e umana crea il “pabulum” ideale per la ricombinazione e la creazione di ceppi influenzali pericolosi per l’uomo. Alcune decine di milioni di euro spesi oggi per tale monitoraggio possono permettere di risparmiare miliardi domani. - Conoscenza: osservare e dare maggiore importanza alla realtà nei Paesi già interessati dalla suina, con la contemporanea raccolta di dati a livello mondiale, insieme ad un’analisi critica della letteratura e dell’esperienza, avrebbe forse permesso di valutare in tempo reale i passi iniziali e quelli avanzati dell’epidemia, compresi gli esiti di morbilità e di mortalità, ridimensionando il fenomeno in termini di concretezza non mediatica - Intelligenza: la messa a punto di modelli matematici (bioinformatici) oggi permette di identificare le vie di diffusione del contagio, come quella legata alla trasmigrazione giornaliera di milioni di persone tramite il traffico aereo: una patologia infettiva per via respiratoria ad incubazione breve trova per questa via il modo migliore per diffondersi a livello intercontinentale. Il nostro essere coadiutori della realtà ci pone quotidianamente nella condizione di utilizzare questi strumenti per fare del nostro meglio, coniugando le necessità della Sanità pubblica a quelle della singola persona, ricordando che ogni morte e’ una sconfitta della medicina, e rimane tale anche quando statisticamente irrilevante.
Editoriale a cura di C.F. Perno* e di C. Isimbaldi**

mercoledì 24 febbraio 2010

Il fiore e don Giussani

Don Giussani e il suo Dio di carne e ossa
di Marina Corradi
«Per me che non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità ha riedificato quella struttura umana cristiana che la mia generazione aveva perduto». Marina Corradi ricorda il fondatore di Cl
Avrò avuto nove anni quando un giorno, guardando in giù dal finestrino di una funivia delle Dolomiti, notai un fiore viola, solo, bellissimo, abbarbicato sulle rocce a picco, sospeso sull’abisso. È strano come certe cose apparentemente insignificanti ti restino in mente: mi ricordo che mi domandai che senso avesse quel fiore così bello, in una piega della roccia in cui non lo avrebbe visto mai nessuno. Però non posi neppure la domanda agli adulti che erano con me. Non ero certa che fosse una domanda sensata. Quel fiore del monte Faloria, nella mia memoria, è legato a don Luigi Giussani. Benché io Giussani non l’abbia mai conosciuto. L’ho solo letto, ho solo incontrato gente che lo ha seguito. Sono una “figlia” indiretta, come potrebbero esserlo i ragazzi di oggi, che la sua faccia non l’hanno vista mai. Dunque, quel fiore era in realtà una faccenda importante. Col suo splendore gratuito speso su un anfratto irraggiungibile, interrogava sulla bellezza, e sul significato della bellezza. E perché poi una bambina doveva restarne tanto stupita e stranamente commossa? In fondo era solo un fiore. Passarono tanti anni da quel giorno in funivia. A venticinque anni io ero il tipico prodotto della cultura in cui ero vissuta. Sprezzante verso la Chiesa, acre verso ciò che del cristianesimo mi era stato tramandato: brandelli di un catechismo moralista e triste, di un pio appello a essere “buoni”, senza che se ne capisse la ragione. Nulla che potesse interessarmi. Senonché ero triste, e a volte quasi disperata: l’educato nichilismo in cui vivevo non mi bastava. Don Giussani, attraverso la voce di alcuni dei suoi, nei suoi libri, è stato per me l’uomo capace di ribaltare l’idea che mi ero fatta del cristianesimo. Di rovesciarla, riportandola all’essenza rivoluzionaria dell’origine. Che è: Dio si è fatto uomo. Verbum caro factum est. Duemila anni fa è nato un bambino che era il figlio di Dio. Ha predicato, è stato amato, è morto in croce ed è risorto. Tutto comincia da una storia di carne, tutto è concreto. Non è un’idea, non è un nobile “valore”: è un uomo, è quell’uomo, il cristianesimo. Si dirà che tanti nella storia della Chiesa hanno ripetuto la stessa cosa. Certo, ma nei nostri anni, e soprattutto per i figli dei borghesi come me, Giussani ha saputo ridirlo con una straordinaria efficacia. Parlava la lingua giusta. Capiva da quali delusioni venivamo, si era accorto prima degli altri, ascoltando gli studenti del Berchet negli anni Cinquanta, di quanto formale e vuoto era diventato ormai, per molti, il cristianesimo. E il ripartire dal fatto, dal nascere di quell’uomo nella carne, comporta la pretesa cristiana di incidere pienamente nella storia: di avere a che fare con tutto ciò che l’uomo fa.Quindici anni fa andai a intervistare un intellettuale laico allora molto in voga. Si parlava di smarrimento dei giovani, e dei soliti “valori” perduti. Tutto in astratto: perché, come disse il professore con sussiego, «Dio, se anche c’è, non c’entra». Ecco, ho amato Giussani proprio perché era il contrario di quell’intellettuale noioso e annoiante, e inutile col suo invocare vaghe utopistiche etiche. Ho amato Giussani con il suo Cristo di carne e ossa, con la sua orgogliosa pretesa di un Dio che c’entra con ogni uomo, con ogni istante della vita. Quel Cristo che è «tutto in tutti», come scriveva Paolo, nel vigore delle origini.E però, insieme a questa totalità di pretesa, altrettanto grande è in Giussani l’amore per la libertà. Educava – mi hanno raccontato i suoi amici – ad aderire nella pienezza della ragione. Mai per conformismo, moralismo, abitudine. Ammettendo dunque implicitamente la possibilità di rifiutare, di sbagliare, di andarsene: perché siamo liberi. E di ritornare: perché il nostro Dio è misericordioso.La ragione usata fino al culmineHa insegnato a usare la ragione fino al suo culmine: l’ammettere che c’è qualcosa che la supera, l’ammettere che siamo “fatti da”, che siamo creature. Questione determinante, in un tempo che fa dell’autosufficienza dell’uomo il proprio vero dogma. È il crinale che ci divide oggi: siamo creature o padroni assoluti di noi? A quanti ragazzi, allontanati da un cristianesimo che aveva ridotto la sua speranza a una morale, Giussani ha saputo dire, ha trovato le parole per dire che siamo “figli”. Figli di un padre che ci ha dato una vocazione: cioè un compito. Che dunque siamo qui a fare qualcosa di importante, non a ingannare il tempo. Che non andiamo verso il nulla, ma verso un destino. E che quel destino, qualsiasi siano le circostanze, è buono. Per me, che Giussani non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità di affetti e parole è stato un ricostruttore: ha riedificato quella struttura umana cristiana che molti della mia generazione avevano perduto. Ci ha detto che è vero ciò in cui credevano i padri dei padri; che ha un senso sposarsi per sempre, e avere dei figli, e continuare la storia. (Come il restauro di un tesoro sommerso, ossidato dal tempo, confuso nella memoria).E il fiore del monte Faloria? Beh, quel fiore è una faccenda fondamentale. Perché la bellezza, ho imparato nei libri di Giussani, è segno, che potentemente rimanda all’Altro. Orma sui nostri sentieri, lasciata per chi liberamente voglia riconoscerla. O apparentemente abbandonata in terre senza nessuno, come quella genziana. Gratuitamente, verginalmente adorante il suo creatore. Come forse infantilmente avevo intuito – fedele a una domanda originaria – quel giorno in montagna. E poi dimenticato. Quel prete mai incontrato mi ha spiegato che tutto è ancora e sempre vero. Da quell’istante che ha tagliato la storia, con il vagito di un bambino.

lunedì 22 febbraio 2010

Cosa significa ENTRARE nell'itinerario quaresimale

BENEDETTO XVI
ANGELUS
Piazza San PietroDomenica, 21 febbraio 2010
(Video)

Cari fratelli e sorelle!
Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, tempo di rinnovamento spirituale che prepara alla celebrazione annuale della Pasqua. Ma che cosa significa entrare nell’itinerario quaresimale? Ce lo illustra il Vangelo di questa prima domenica, con il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Narra l’Evangelista san Luca che Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, “pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito Santo nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo” (Lc 4,1-2). È evidente l’insistenza sul fatto che le tentazioni non furono un incidente di percorso, ma la conseguenza della scelta di Gesù di seguire la missione affidatagli dal Padre, di vivere fino in fondo la sua realtà di Figlio amato, che confida totalmente in Lui. Cristo è venuto nel mondo per liberarci dal peccato e dal fascino ambiguo di progettare la nostra vita a prescindere da Dio. Egli l’ha fatto non con proclami altisonanti, ma lottando in prima persona contro il Tentatore, fino alla Croce. Questo esempio vale per tutti: il mondo si migliora incominciando da se stessi, cambiando, con la grazia di Dio, ciò che non va nella propria vita.
Delle tre tentazioni cui Satana sottopone Gesù, la prima prende origine dalla fame, cioè dal bisogno materiale: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Lc 4,3-4; cfr Dt 8,3). Poi, il diavolo mostra a Gesù tutti i regni della terra e dice: tutto sarà tuo se, prostrandoti, mi adorerai. È l’inganno del potere, e Gesù smaschera questo tentativo e lo respinge: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (cfr Lc 4,5-8; Dt 6,13). Non adorazione del potere, ma solo di Dio, della verità e dell’amore. Infine, il Tentatore propone a Gesù di compiere un miracolo spettacolare: gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli, così che tutti avrebbero creduto in Lui. Ma Gesù risponde che Dio non va mai messo alla prova (cfr Dt 6,16). Non possiamo “fare un esperimento” nel quale Dio deve rispondere e mostrarsi Dio: dobbiamo credere in Lui! Non dobbiamo fare di Dio “materiale” del “nostro esperimento”! Riferendosi sempre alla Sacra Scrittura, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: l’obbedienza, la conformità con la volontà di Dio, che è il fondamento del nostro essere. Anche questo è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore. Inoltre, da tutto il racconto emerge chiaramente l’immagine di Cristo come nuovo Adamo, Figlio di Dio umile e obbediente al Padre, a differenza di Adamo ed Eva, che nel giardino dell’Eden avevano ceduto alle seduzioni dello spirito del male, di essere immortali senza Dio.
La Quaresima è come un lungo “ritiro”, durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di “agonismo” spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. In questo modo potremo giungere a celebrare la Pasqua in verità, pronti a rinnovare le promesse del nostro Battesimo. Ci aiuti la Vergine Maria affinché, guidati dallo Spirito Santo, viviamo con gioia e con frutto questo tempo di grazia. Interceda in particolare per me e i miei collaboratori della Curia Romana, che questa sera inizieremo gli Esercizi Spirituali.

La conversione di Henry Newman


Sorprendente è il Mistero che penetra l'anima bellissima di questo grande uomo e progressivamente viene rischiarato dalla Parola e poi dalla vita e dal pensiero dei Padri!

Un bell' esempio per questi giorni di Quaresima .


I padri della Chiesa e la conversione di John Henry Newman
Quei buoni amici del quarto secolo

di Inos Biffi
All'apparire della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (4 novembre 2009) sull'accoglienza di gruppi anglicani "nella piena comunione cattolica", il pensiero si volge spontaneamente a John Henry Newman, che, dopo un laborioso e tribolato cammino, il 9 ottobre 1845 veniva accolto nella Chiesa cattolica dal passionista Domenico Barberi - beatificato nel 1963 - che per caso passava da Littlemore. Nel suo Diario Newman scrive: "In serata venne Padre Domenico. Iniziai la mia confessione". "L'8 ottobre - egli annota nell'Apologia (1864) - scrissi a vari amici la seguente lettera: "Littlemore, 8 ottobre 1845. Stasera aspetto padre Domenico, il passionista che, fin dalla gioventù, è stato ispirato a occuparsi in modo diretto e specifico, prima dei paesi del Nord, poi dell'Inghilterra. Dopo quasi trent'anni di attesa fu mandato qui senza che lui l'avesse chiesto. (...) È un uomo semplice e santo, e allo stesso tempo dotato di notevoli qualità. Non conosce le mie intenzioni, ma intendo chiedergli l'ammissione nell'unico ovile di Cristo"". Quella sera piovosa Newman incominciò, dunque, la sua confessione generale presso il fuoco a cui il passionista, giunto tutto bagnato fradicio, si riasciugava. La preparava da giorni e la terminò l'indomani, il 9 ottobre, quando, verso le sei del pomeriggio, fece la professione di fede, seguita dal battesimo sotto condizione; il giorno seguente partecipò alla messa e fece la comunione. "Avevo l'impressione - ricorderà sempre nell'Apologia - di entrare in porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora ad oggi, è rimasta inalterata". "Mai la Chiesa Romana, dopo la riforma protestante, - avrebbe commentato il primo ministro britannico William E. Gladstone - ha riportato una vittoria più grande!". A proposito di questa Chiesa nel maggio del 1843 aveva comunicato a Keble: "Temo di credere che la comunione cattolica romana sia la Chiesa degli apostoli. Sono assai più sicuro del fatto che la Chiesa anglicana si trovi in loco haereseos, che non del fatto che le aggiunte romane al Credo originale non siano altro che sviluppi scaturiti da un'esperienza viva e penetrante del deposito della fede". E il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana cui si stava dedicando gliene dà una conferma sempre più chiara. A Henry H. Manning aveva scritto che le sue dimissioni da vicar di St. Mary's non erano dovute a delusione né a irritazione, ma alla sua convinzione che "la Chiesa di Roma è la Chiesa cattolica", mentre non lo era quella anglicana. Alla sorella Jemima, angosciata dalla scelta del fratello come chi viene a sapere "che un caro amico deve morire", diceva in una delle lettere tormentate e piene di affetto di quel tempo: "Una chiara convinzione della sostanziale identità fra Cristianesimo e sistema romano occupa la mia mente da tre anni"; l'"unica ragione" del suo gesto era "semplicemente quella di credere che la Chiesa romana è quella vera". D'altronde egli non poteva fare diversamente: "Non vedo nulla che mi possa spingere alla decisione, se non il pensiero che offenderei Dio, non facendolo". Nel suo soggiorno a Milano, nel 1846, osservava: "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica - e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste". Il distacco dalla Chiesa anglicana era stato dolorosissimo, e tutti, in lacrime, lo avevano avvertito nella cappella di Littlemore il 26 settembre del 1843, quando Newman pronunziò il suo ultimo sermone anglicano - "La separazione dagli amici" - ossia la separazione, come egli diceva, da quella Chiesa che non lo riconosceva più e da quei fratelli, "teneri e affettuosi", ai quali domandava che pregassero "perché conoscesse la volontà di Dio e fosse pronto ad attuarla". L'unico suo timore - avrebbe scritto ancora alla sorella Jemima - era quello di "tradire la grazia divina". La conversione segnava l'approdo di un cammino interiore arduo e lucido, in cui si intrecciava la sua fedeltà alla coscienza che via via trovava la sua illuminazione nella storia stessa della Chiesa. Dal profilo della fedeltà alla Grazia e alla coscienza si potrebbe dire che quel cammino era incominciato quando nella sua prima conversione (1816) brillò in lui, con la diffidenza per "la verità dei fenomeni mutevoli", "l'idea di due e solo due esseri assoluti di piena evidenza: Io e il mio Creatore" - Creatore che parla e si rivolge a lui personalmente nella Scrittura - e la persuasione che "la santità è preferibile alla pace" e che "la crescita è segno della vita". Ma va segnata un'altra tappa nell'iter interiore di Newman, quando, in circostanze di viva sofferenza e di prostrazione, nel 1827, si risvegliò bruscamente dalla seduzione dell'intellettualismo e del liberalismo. Venne poi il viaggio nel Mediterraneo del 1833 e la malattia in Sicilia, durante la quale andava ripetendo di "non aver mai peccato contro la Luce", la Luce che brillava nel suo spirito illuminato dalla Parola di Dio. Intanto si dedicava allo studio appassionato dei Padri della Chiesa, e particolarmente dei suoi "amici del secolo iv", che erano "Atanasio dal cuore regale", il "maestoso Ambrogio", il "glorioso predicatore" Crisostomo, paragonato a "una giornata di primavera, luminosa e piovosa, che riluceva e brillava della pioggia", e Basilio, simile a "una giornata d'autunno, calma, mite e uggiosa", e Gregorio di Nazianzo, un'"estate piena, con lunghe ore di dolce quiete, e la monotonia spezzata da lampi e tuoni". "Sempre il ricordo dei Padri - annota Denys Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto: "Questo è il luogo più meraviglioso. (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, Santa Monica, Sant'Atanasio". Dichiarerà a Pusey: "I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic)" e chiederà al Signore "il senso dei santi Padri", così da dire quello che essi hanno detto e da pensare quello che essi hanno pensato. Furono, quelli, per Newman anni di assidua e sofferta ricerca e di penetrante e rigorosa valutazione intellettuale. Ma egli si accorgeva che, per una "verità intera", non poteva più accontentarsi di una "via media", e che i suoi Tracts - che gli provocavano violente reazioni e forti condanne - lo inducevano al distacco definitivo e traumatico, d'altronde rasserenato da sicura coscienza. Il "Movimento di Oxford", che egli aveva suscitato, come una primavera, maturava in lui nell'adesione alla Chiesa di Roma, pur continuando a portare nel cuore e nella memoria il bene ricevuto e l'attaccamento alle valide tradizioni conservate nella sua Chiesa. Newman entrava, secondo le parole della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, in quell'"unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica", quale "sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui". Newman non si sarebbe mai pentito del passo fatto. Trent'anni dopo la conversione avrebbe confidato: "Dal 1845 non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentito essere divina". E quando si sussurrava che, deluso del trattamento che gli era riservato nella Chiesa Cattolica, avesse intenzione di ritornare alla Chiesa anglicana, egli smentì con indignazione quelle voci: "Non ho mai vacillato un istante nella mia fiducia nella Chiesa Cattolica, da quando sono stato accolto nel suo grembo. Sarei un perfetto imbecille - per usare un termine moderato - se nella mia vecchiaia abbandonassi "la terra dove scorrono latte e miele", per la città della confusione e la casa della servitù". (©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010 )