venerdì 7 gennaio 2011

La persecuzione rafforza il processo di unità tra cattolici e ortodossi

Le Chiese Orientali celebrano il Natale tra imponenti misure di sicurezza



Le Chiese orientali che seguono il calendario giuliano celebrano oggi il Santo Natale. Ai fratelli e alle sorelle di queste comunità Benedetto XVI ha espresso ieri, dopo l’Angelus, i suoi più fervidi auguri. “La bontà di Dio – ha detto il Papa - rafforzi in tutti la fede, la speranza e la carità, e dia conforto alle comunità che sono nella prova”. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, riferendosi in particolare alla strage di Capodanno in Egitto ha affermato che la serie di attacchi contro i cristiani “appare sempre di più come un piano particolarmente malvagio di pulizia religiosa nel Medio Oriente”. Il servizio di Amedeo Lomonaco:RealAudioMP3

(Canto ortodosso)

Le Chiese Orientali celebrano oggi la nascita di Gesù affidando ogni speranza al Salvatore, il “Principe della pace”. Ma le celebrazioni natalizie si svolgono, in vari Paesi, tra imponenti misure di sicurezza per il timore di possibili attentati. In Medio Oriente i fedeli sono protetti da militari in assetto da combattimento. In Iraq, nella città di Mosul, le forze di sicurezza hanno trovato diversi ordigni e alcune cinture cariche di esplosivo nei pressi di una chiesa ortodossa. Anche in Europa poliziotti e agenti sorvegliano gli ingressi dei luoghi di culto. A far alzare il livello di allarme sono nuove minacce di integralisti legati ad Al Qaeda. Ma i timori non fermano i fedeli. In Egitto, in particolare, la comunità copta ha partecipato, nella notte, alle celebrazioni per la Veglia tra imponenti misure di sicurezza. Shenouda III, Papa di Alessandria e Patriarca dell'Episcopato di San Marco, ha ricordato nell’omelia le vittime dell’attentato di capodanno costato la vita a 23 persone e tutti i cristiani uccisi in nome della fede in vari Paesi. Anche la popolazione non cristiana ha manifestato la propria vicinanza. In Egitto molti fedeli musulmani hanno partecipato infatti alle funzioni natalizie per sottolineare la loro solidarietà nei confronti dei copti. Rigide misure di sicurezza sono state predisposte infine anche in Russia. Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill ha celebrato nella notte la tradizionale liturgia della Veglia nella Cattedrale di Cristo Salvatore alla presenza di migliaia di persone, tra cui il presidente della Federazione russa Dimitri Medvedev. Nell’omelia il Patriarca ha detto che Dio, in risposta alle preghiere, “entra nella vita dell’uomo, lo sostiene per mano, ne rafforza la mente, l’animo e il corpo”. Ora come non mai – ha concluso il Patriarca – l’uomo “ha bisogno dell’aiuto di Dio, del Suo amore e della Sua misericordia”.

(Canto ortodosso)

Per la comunità copta, in particolare, le celebrazioni per il Natale sono dunque accompagnate dalle preghiere per le vittime della strage compiuta a capodanno ad Alessandria. Ascoltiamo al microfono di Amedeo Lomonaco il vescovo della diocesi copto-ortodossa di San Giorgio a Roma, mons. Barnaba El Soryany:RealAudioMP3

R. – Noi abbiamo celebrato il Santo Natale nella notte, con la tristezza e le lacrime agli occhi, per l’attentato di Capodanno, in cui sono state uccise 23 persone della nostra comunità di Alessandria. Oggi c’è l’incontro con le famiglie, ma quest’anno a Natale non ci saranno auguri, perché il Natale per noi è spento: mancano la felicità e la gioia dei Natali passati.

D. – Un Natale spirituale, scandito dalla preghiera, dal pensiero costante in particolare alla comunità così colpita di Alessandria d’Egitto...

R. – Certo, c’è stata soltanto la cerimonia liturgica del Natale, solo la cerimonia.

D. – Ieri anche il Papa all’Angelus ha ricordato le Chiese Orientali. Il Santo Padre ha espresso la propria vicinanza a queste comunità che sono messe duramente alla prova...

R. – Siamo molto, molto grati per tutto quello che fa Papa Benedetto XVI per tutti i cristiani in Medio Oriente: ha convocato il Sinodo speciale per il Medio Oriente, aiuta la nostra comunità, si fa portavoce in tutta la comunità internazionale per proteggere i nostri fedeli in tutto il Medio Oriente. Il dialogo poi tra cattolici e ortodossi esiste dal ’73, quando Sua Santità Papa Shenouda venne in Vaticano, ai tempi di Papa Paolo VI. Abbiamo fatto passi importanti e vedo che tra le Chiese adesso – grazie a Dio - abbiamo fatto tanto e speriamo che si possa andare avanti nel tempo con questo dialogo.

D. – Come lei ha detto “un Natale purtroppo spento”; ma qual è la luce che si può accendere comunque anche in questo momento così difficile?

R. – Noi auguriamo a tutti i cristiani del mondo un anno sereno e tranquillo e portiamo la voce della pace a tutto il mondo. Il nostro messaggio, quest’anno, è: “Basta violenza! Basta terrorismo! Basta sangue!”. Io aggiungo soltanto che domenica prossima, 9 gennaio, dalle 14 alle 16, la comunità copta ortodossa cristiana a Roma farà una manifestazione in Piazza della Repubblica di solidarietà con i nostri fratelli cristiani in Egitto. (ap)

Il cristianesimo radice dell'Unità d' Italia

napolitano

L'Unità non è in discussione,  ma l'identità è da riconoscere












Ci riconosciamo sulle questioni aperte da Marco Invernizzi.In sintonia con quanto affermato dalla Cei recentemente e da autorevoli cardinali,ci sembra limitativo non chiarirci e chiarire agli altri che di fronte al riconoscimento della giustezza della presenza dello Stato Italiano e delle celebrazioni dell'Unità non deve essere messo in secondo piano il difficile rapporto tra diverse coscienze culturali che hanno formato questa unità.
In modo particolare ci riguarda esprimere il fatto che la radice cristiana dello stato italiano permeava già prima della sua formazione quella vasta area storico geografica che si riconosceva depositaria della cultura italiana e che non corrispondeva a confini territoriali come li conosciamo adesso.
L'italianità infatti, se ne dobbiamo rintraccaciare la sua identità, è sicuramente inscindibile dall'apporto del cristianesimo in tutte le dimensioni del vivere :filosofica , artistica ,sociale e politica .

Il Cristianesimo stesso ha permesso prima ancora della formazione dello stato, di far assimilare la coscienza di una separazione netta,che oggi diremmo laica , tra l'area di interesse dello stato e quello della religione .

Se ci è consentito un certo entusiasmo è proprio dovuto al fatto che tutto ciò che consideriamo agli occhi bello da vedersi nella storia della costruziione della "polis" italiana sia dal punto di vista istituzionale ma anche dell'organizzazione urbanistica è legato alla partecipazione del riferimento cristiano nella cultura in generale .



L'Unità non è in discussione, ma l'identità è da riconoscere

di Marco Invernizzi
07-01-2011

Il Tricolore è un simbolo unitario indicato nella Costituzione e deve quindi essere rispettato da tutti, ma ancor più da chi ha responsabilità di rappresentanza e di governo. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dando oggi da Reggio Emilia il via ufficiale alle celebrazioni ufficiali del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. A Reggio, infatti, nel 1797, venne esposto ufficialmente per la prima volta il tricolore, la bandiera che ancora oggi rappresenta il simbolo dello Stato nazionale nato nel 1861, appunto 150 anni fa.

Napolitano ha sottolineato la necessità di ricordare la nascita dell’Italia senza indulgere ad «una visione acritica del Risorgimento, ad una rappresentazione idilliaca; quel che è giusto sollecitare è un approccio non sterilmente recriminatorio e sostanzialmente distruttivo, un approccio che ponga in piena luce il decisivo avanzamento storico consentito all’Italia dalla nascita dello stato nazionale».
In questa prospettiva è bene ricordare le modalità delle origini in cui si colloca anche la vicenda del Tricolore.

Nel 1797 l’Italia conosceva gli inizi del processo risorgimentale che avrebbe condotto all’Unità. Era il cosiddetto ”triennio giacobino” (1796-1799), successivo all’invasione delle truppe francesi guidate, dal 1796, da Napoleone, che avrebbe dominato in Italia fino alla sconfitta del 1815. Oggi gli storici sono quasi tutti concordi nel riconoscere l’importanza del “lungo Risorgimento”, quello appunto cominciato con l’invasione francese, determinante per porre le basi della successiva rivoluzione italiana. Basi ideologiche anzitutto, ma anche umane e organizzative se pensiamo quanti ufficiali, politici, cospiratori fecero “gavetta” durante il ventennio per poi operare nei primi moti risorgimentali del 1820-21 e del 1830, aprendo così diverse “reti” di cospirazione che avrebbero appunto dato vita alle rivoluzioni del Quarantotto e poi del 1859.

Le celebrazioni cominciano in un periodo delicato della vita italiana. Il Bel Paese è in crisi, anzitutto di identità. D’altra parte il mito dell’Italia nata come Stato unitario nel 1861 non ha mai veramente convinto. Nel periodo liberale (1861-1922), l’Italia ufficiale dovette fare i conti con l’opposizione cattolica (il Paese reale) e quella socialista, che per motivi diversi non si riconoscevano nei fasti risorgimentali.

Dopo la Marcia su Roma, il regime fascista continuò a presentarsi come continuatore dello Stato nato nel 1861, pur cambiandone i connotati formali. Nel secondo dopoguerra, la Dc riportò i cattolici alla guida dello Stato, ma essa non volle mettere in discussione le caratteristiche anticattoliche del Risorgimento per il timore che prendesse corpo l’antica accusa che i cattolici erano ostili allo Stato unitario. Così la Prima Repubblica si resse su una sorta di compromesso fra il partito di ispirazione cristiana - che garantiva l’appartenenza dell’Italia alla alleanza occidentale e anticomunista - e il partito comunista, che egemonizzò l’opposizione in nome di una ideologia che non “doveva” governare un Paese a ovest della Cortina di ferro.

I cittadini di queste tre Italie, la liberale, la fascista e la repubblicana, non smisero di amare il loro Paese, ma non si innamorarono mai veramente dello Stato nazionale, forse perché capivano prima e meglio degli intellettuali che l’Italia esisteva da almeno un millennio e c’entrava poco con quello Stato nazionale nato con un processo che ha creato, e lasciato, almeno tre ferite.

Intendiamoci, bisogna distinguere l’Unità dal Risorgimento. La prima dobbiamo tenerla e anche custodirla. Sarebbe giacobino disfarsene in un momento di debolezza dello Stato, tanto più che ciò che tiene insieme gli italiani oggi sono proprio quelle realtà, oltre alla Chiesa cattolica, che esibiscono pubblicamente il tricolore: le forze armate, i carabinieri e la polizia, gli “azzurri” delle diverse discipline sportive. Così come lo Stato del 1861 ha purtroppo un debito nei confronti delle Repubbliche giacobine del triennio, oggi non bisogna ripetere lo stesso errore, disprezzando e sottovalutando un secolo e mezzo di vita comune.

Però dobbiamo chiederci su che cosa puntare per rilanciare questa identità italiana che stenta a nascere. Se partiamo infatti dalla nazione dei mille campanili, che poi è l’Italia reale, che cosa troviamo? Il campanile appunto, cioè le radici profonde di Paese cristiano. Ma anche il Comune, cioè l’aggregazione territoriale che unisce le famiglie di un borgo (che può diventare anche un grande borgo, la città) che ha messo al centro, nella piazza principale, proprio il campanile, accanto alla sede comunale.

Ebbene, questa Italia verrà ricordata nelle prossime celebrazioni? Verrà ricordata la ferita di Porta Pia, il caso di coscienza dei cattolici italiani dell’Ottocento, per ricordare un celebre libro del secondo dopoguerra che aveva proprio questo titolo e ricordava il conflitto interiore di tanti cattolici che amavano la patria, ma più ancora la Chiesa? Certo, i cattolici sono rientrati nelle istituzioni, a partire dal Patto Gentiloni nel 1913 e poi durante la Grande Guerra, quando ci fu il primo ministro cattolico. Eppure, proprio per questo, perché non tenere conto che una ferita c’è stata, alle origini, non risolta completamente dal Concordato del 1929, una ferita che si riapre di fronte ai tanti conflitti culturali che tuttora dividono il Paese sui temi eticamente sensibili?

C’è da chiedersi se nelle celebrazioni ufficiali non poteva trovare posto un riconoscimento esplicito a queste radici, per esempio all’italianità del beato Pio IX, o del beato Rosmini. E anche se cominciare le celebrazioni dallo scoglio di Quarto, il 5 maggio scorso, da dove partì una spedizione militare che aggredì uno Stato sovrano, il regno delle Due Sicilie, sia stato il modo migliore per affrontare la “ferita meridionale”, l’altra grande questione dopo quella cattolica e quella federalista che ancora rimangono aperte.

Sono domande senza la pretesa di avere risposte preconfezionate. Rivolte dalle pagine web di un quotidiano cattolico che è completamente d’accordo con lo sforzo della gerarchia della Chiesa nell’offrire un supplemento d’anima a un Paese in crisi d’identità. Ma l’identità presuppone la consapevolezza che qualcosa non è andato bene e che dalle ferite si può guarire, a patto che in qualche modo si cominci a curarle.