mercoledì 31 marzo 2010

Come seguire Gesù!

CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
XXV Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 28 marzo 2010

(Video)
Immagini della celebrazione



Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!

Il Vangelo della benedizione delle palme, che abbiamo ascoltato qui riuniti in Piazza San Pietro, comincia con la frase: “Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” (Lc 19,28). Subito all’inizio della liturgia di questo giorno, la Chiesa anticipa la sua risposta al Vangelo, dicendo: “Seguiamo il Signore”. Con ciò il tema della Domenica delle Palme è chiaramente espresso. È la sequela. Essere cristiani significa considerare la via di Gesù Cristo come la via giusta per l’essere uomini – come quella via che conduce alla meta, ad un’umanità pienamente realizzata e autentica. In modo particolare, vorrei ripetere a tutti i giovani e le giovani, in questa XXV Giornata Mondiale della Gioventù, che l’essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica.

Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova? La frase del nostro Vangelo offre due indicazioni al riguardo. In primo luogo dice che si tratta di un’ascesa. Ciò ha innanzitutto un significato molto concreto. Gerico, dove ha avuto inizio l’ultima parte del pellegrinaggio di Gesù, si trova a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme – la meta del cammino – sta a 740-780 metri sul livello del mare: un’ascesa di quasi mille metri. Ma questa via esteriore è soprattutto un’immagine del movimento interiore dell’esistenza, che si compie nella sequela di Cristo: è un’ascesa alla vera altezza dell’essere uomini. L’uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l’alto. Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l’aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l’altro. Egli conduce verso la disponibilità per i sofferenti, per gli abbandonati; verso la fedeltà che sta dalla parte dell’altro anche quando la situazione si rende difficile. Conduce verso la disponibilità a recare aiuto; verso la bontà che non si lascia disarmare neppure dall’ingratitudine. Egli ci conduce verso l’amore – ci conduce verso Dio.

“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Se leggiamo questa parola del Vangelo nel contesto della via di Gesù nel suo insieme – una via che, appunto, prosegue sino alla fine dei tempi – possiamo scoprire nell’indicazione della meta “Gerusalemme” diversi livelli. Naturalmente innanzitutto deve intendersi semplicemente il luogo “Gerusalemme”: è la città in cui si trovava il Tempio di Dio, la cui unicità doveva alludere all’unicità di Dio stesso. Questo luogo annuncia quindi anzitutto due cose: da un lato dice che Dio è uno solo in tutto il mondo, supera immensamente tutti i nostri luoghi e tempi; è quel Dio a cui appartiene l’intera creazione. È il Dio di cui tutti gli uomini nel più profondo sono alla ricerca e di cui in qualche modo tutti hanno anche conoscenza. Ma questo Dio si è dato un nome. Si è fatto conoscere a noi, ha avviato una storia con gli uomini; si è scelto un uomo – Abramo – come punto di partenza di questa storia. Il Dio infinito è al contempo il Dio vicino. Egli, che non può essere rinchiuso in alcun edificio, vuole tuttavia abitare in mezzo a noi, essere totalmente con noi.

Se Gesù insieme con l’Israele peregrinante sale verso Gerusalemme, Egli ci va per celebrare con Israele la Pasqua: il memoriale della liberazione di Israele – memoriale che, allo stesso tempo, è sempre speranza della libertà definitiva, che Dio donerà. E Gesù va verso questa festa nella consapevolezza di essere Egli stesso l’Agnello in cui si compirà ciò che il Libro dell’Esodo dice al riguardo: un agnello senza difetto, maschio, che al tramonto, davanti agli occhi dei figli d’Israele, viene immolato “come rito perenne” (cfr Es 12,5-6.14). E infine Gesù sa che la sua via andrà oltre: non avrà nella croce la sua fine. Sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l’uomo nel suo corpo. Sa che il suo corpo risorto sarà il nuovo sacrificio e il nuovo Tempio; che intorno a Lui, dalla schiera degli Angeli e dei Santi, si formerà la nuova Gerusalemme che è nel cielo e tuttavia è anche già sulla terra, perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra. La sua via conduce al di là della cima del monte del Tempio fino all’altezza di Dio stesso: è questa la grande ascesa alla quale Egli invita tutti noi. Egli rimane sempre presso di noi sulla terra ed è sempre già giunto presso Dio, Egli ci guida sulla terra e oltre la terra.

Così, nell’ampiezza dell’ascesa di Gesù diventano visibili le dimensioni della nostra sequela – la meta alla quale Egli vuole condurci: fino alle altezze di Dio, alla comunione con Dio, all’essere-con-Dio. È questa la vera meta, e la comunione con Lui è la via. La comunione con Lui è un essere in cammino, una permanente ascesa verso la vera altezza della nostra chiamata. Il camminare insieme con Gesù è al contempo sempre un camminare nel «noi» di coloro che vogliono seguire Lui. Ci introduce in questa comunità. Poiché il cammino fino alla vita vera, fino ad un essere uomini conformi al modello del Figlio di Dio Gesù Cristo supera le nostre proprie forze, questo camminare è sempre anche un essere portati. Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l’entrare nel «noi» della Chiesa; l’aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione – il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L’umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell’ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell’insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione. L’umiltà dell’«essere-con» è essenziale per l’ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell’ascesa, anche se siamo stanchi.

Infine, dobbiamo ancora dire: dell’ascesa verso l’altezza di Gesù Cristo, dell’ascesa fino all’altezza di Dio stesso fa parte la Croce. Come nelle vicende di questo mondo non si possono raggiungere grandi risultati senza rinuncia e duro esercizio, come la gioia per una grande scoperta conoscitiva o per una vera capacità operativa è legata alla disciplina, anzi, alla fatica dell’apprendimento, così la via verso la vita stessa, verso la realizzazione della propria umanità è legata alla comunione con Colui che è salito all’altezza di Dio attraverso la Croce. In ultima analisi, la Croce è espressione di ciò che l’amore significa: solo chi perde se stesso, si trova.

Riassumiamo: la sequela di Cristo richiede come primo passo il risvegliarsi della nostalgia per l’autentico essere uomini e così il risvegliarsi per Dio. Richiede poi che si entri nella cordata di quanti salgono, nella comunione della Chiesa. Nel «noi» della Chiesa entriamo in comunione col «Tu» di Gesù Cristo e raggiungiamo così la via verso Dio. È richiesto inoltre che si ascolti la Parola di Gesù Cristo e la si viva: in fede, speranza e amore. Così siamo in cammino verso la Gerusalemme definitiva e già fin d’ora, in qualche modo, ci troviamo là, nella comunione di tutti i Santi di Dio.

Il nostro pellegrinaggio alla sequela di Cristo non va verso una città terrena, ma verso la nuova Città di Dio che cresce in mezzo a questo mondo. Il pellegrinaggio verso la Gerusalemme terrestre, tuttavia, può essere proprio anche per noi cristiani un elemento utile per tale viaggio più grande. Io stesso ho collegato al mio pellegrinaggio in Terra Santa dello scorso anno tre significati. Anzitutto avevo pensato che a noi può capitare in tale occasione ciò che san Giovanni dice all’inizio della sua Prima Lettera: quello che abbiamo udito, lo possiamo, in certo qual modo, vedere e toccare con le nostre mani (cfr 1Gv 1,1). La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su di una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare. È commovente trovarsi a Nazaret nel luogo dove l’Angelo apparve a Maria e le trasmise il compito di diventare la Madre del Redentore. È commovente essere a Betlemme nel luogo dove il Verbo, fattosi carne, è venuto ad abitare fra noi; mettere il piede sul terreno santo in cui Dio ha voluto farsi uomo e bambino. È commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è Lui stesso.

Quando andiamo in Terra Santa come pellegrini, vi andiamo però anche – e questo è il secondo aspetto – come messaggeri della pace, con la preghiera per la pace; con l’invito forte a tutti di fare in quel luogo, che porta nel nome la parola “pace”, tutto il possibile affinché esso diventi veramente un luogo di pace. Così questo pellegrinaggio è al tempo stesso – come terzo aspetto – un incoraggiamento per i cristiani a rimanere nel Paese delle loro origini e ad impegnarsi intensamente in esso per la pace.

Torniamo ancora una volta alla liturgia della Domenica delle Palme. Nell’orazione con cui vengono benedetti i rami di palma noi preghiamo affinché nella comunione con Cristo possiamo portare il frutto di buone opere. Da un’interpretazione sbagliata di san Paolo, si è sviluppata ripetutamente, nel corso della storia e anche oggi, l’opinione che le buone opere non farebbero parte dell’essere cristiani, in ogni caso sarebbero insignificanti per la salvezza dell’uomo. Ma se Paolo dice che le opere non possono giustificare l’uomo, con ciò non si oppone all’importanza dell’agire retto e, se egli parla della fine della Legge, non dichiara superati ed irrilevanti i Dieci Comandamenti. Non c’è bisogno ora di riflettere sull’intera ampiezza della questione che interessava l’Apostolo. Importante è rilevare che con il termine “Legge” egli non intende i Dieci Comandamenti, ma il complesso stile di vita mediante il quale Israele si doveva proteggere contro le tentazioni del paganesimo. Ora, però, Cristo ha portato Dio ai pagani. A loro non viene imposta tale forma di distinzione. A loro viene dato come Legge unicamente Cristo. Ma questo significa l’amore per Dio e per il prossimo e tutto ciò che ne fa parte. Fanno parte di quest’amore i Comandamenti letti in modo nuovo e più profondo a partire da Cristo, quei Comandamenti che non sono altro che le regole fondamentali del vero amore: anzitutto e come principio fondamentale l’adorazione di Dio, il primato di Dio, che i primi tre Comandamenti esprimono. Essi ci dicono: senza Dio nulla riesce in modo giusto. Chi sia tale Dio e come Egli sia, lo sappiamo a partire dalla persona di Gesù Cristo. Seguono poi la santità della famiglia (quarto Comandamento), la santità della vita (quinto Comandamento), l’ordinamento del matrimonio (sesto Comandamento), l’ordinamento sociale (settimo Comandamento) e infine l’inviolabilità della verità (ottavo Comandamento). Tutto ciò è oggi di massima attualità e proprio anche nel senso di san Paolo – se leggiamo interamente le sue Lettere. “Portare frutto con le buone opere”: all’inizio della Settimana Santa preghiamo il Signore di donare a tutti noi sempre di più questo frutto.

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”. Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza. Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.



© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

lunedì 15 marzo 2010

Come passare dal Buddhismo al Cristianesimo

14 Marzo 2010
LE STORIE
Da guru buddista ad asceta cristiano
«Kyrie Jesu Christe Eleison». Le labbra s’incurvano ma lo sguardo resta fisso sull’incenso che ci vela l’uno all’altro. «Kyrie Jesu Christe Eleison»: chissà quale ricordo calamita i suoi occhi verdi, se i roghi di Benares o le conferenze di Jasper, le sterminate pellicole di Ejzenštein, il zazen o il Paramatma, la scintilla di Shiva… Forse li cattura un riverbero antico: la neve delle Orobie non è diversa da quella dell’Appenzell, quando il "maestro" era ancora Hanspeter.

Sessant’anni dopo, Masterbee non è più un guru buddista. Dal cristianesimo alle filosofie orientali e ritorno: oggi esplora la spiritualità asiatica alla luce del Vangelo. Semplificando molto, si potrebbe definire l’anti-Terzani: stessa barba candida e un periplo attraverso il pensiero orientale e la tradizione filosofica dell’Occidente, ma con un approdo ben diverso. Quello del mistico svizzero è Gesù Cristo. «Kyrie Jesu Christe Eleison»: chissà se ancora è di fronte a me, in questa baita, o se stia vivendo una delle sue esperienze extracorporee. «Kyrie Jesu Christe Eleison»: seduto nella posizione del loto, recita all’infinito la Preghiera del cuore, il suo mantra cristiano

«È la preghiera di Gesù – dice –. Lo chiamo Jesus Mantra per parlarne ai giovani, ma non va frainteso. L’Occidente crede che il mantra sia solo la ripetizione monologica degli orientali; invece questa parola significa anche "preghiera". Rispetto ai mantra asiatici, che hanno una funzione psicologica, il Jesus Mantra offre, tramite la Grazia, una via di redenzione spirituale». La perpetuazione della preghiera di Gesù degli ortodossi – «Kyrie Jesu Christe Eleison», appunto – in questa interpretazione riprende e capovolge la dinamica del mantra buddista. «Nella mistica cristica – argomenta ancora – l’energia non sale dal basso, dal "sé", ma scende dall’alto, dalla luce di Cristo, e produce una trasformazione spirituale, che include il corpo».

Qualcosa di simile alle estasi di Santa Teresa di Avila. «L’Occidente conosce il sé – aggiunge – ma l’Asia ha scoperto come sperimentarlo attraverso la meditazione profonda». Il discorso, naturalmente, riguarda le vere filosofie orientali e non il "supermercato spirituale" che attira masse di giovani in cerca di risposte facili. «Lo yoga tantrico non è il Bengodi del sesso, ma ha una forte caratura morale ed è una condizione in cui può operare la Grazia, portandoci alla fede cristiana». O riportarvici. Sulle rive del Gange, fu proprio uno swami a incoraggiare Masterbee a tornare «là da dove sei venuto».

Il santone errante aveva visto giusto: «La conversione mi ha mostrato l’impossibilità delle altre religioni di essere salvifiche, anche quando contengono i semi di Dio, come riconosce il Concilio con la Nostra Aetate. Se è pur vero che nel mondo tutto è in relazione, l’intervento di Cristo modifica la realtà e ciò pone un limite alla meditazione del profondo. Essa conduce all’autotrascendenza, fenomeno umano e non divino, e il cristiano può servirsene, ma deve trascendere il metodo con la fede e nessuna tecnica può aiutarlo, perché la salvezza giunge a lui dall’intervento salvifico della Grazia che Gesù Cristo porta nella storia umana e personale».

La riflessione si fa sempre più intima: «Quando si riceve la fede è come se si modificasse in luce e amore la realtà intorno a noi e in noi. Il Vangelo usa il verbo eghéneto per esprimere l’accadere della salvezza e la sua gratuità». Sta raccontando la propria rinascita: «Sono tornato al cristianesimo dopo aver sperimentato il male che lotta contro Cristo, liberandomi dalle tradizioni che si opponevano con grande potenza al mio ritorno». Il background scientifico lo porta a parlare di Dio in termini di luce, di energia, di cosmologia, ma la sua fede è tersa come quella di un bambino: «Non esiste energia più grande dell’amore che promana dalla Resurrezione: è l’unica realtà che trasformi il mondo ed è solo latente nelle religioni orientali, che sono tutte circolari, fanno parte del ciclo del divenire.

Solo la Trinità non finisce». A Masterbee e a Kicka – artista, moglie e discepola – sono occorsi anni per abbandonare le tecniche orientali. Oggi, insieme, mettono la meditazione profonda al servizio della fede attraverso la Preghiera del cuore. Che è silenzio interiore – «Ha un incommensurabile potere trasformante della psiche dell’uomo» – ma non solo: «Quando prego deve avvenire in me una modificazione psicologica e spirituale interiore. Persino nell’adorazione eucaristica se non trascendiamo diventiamo idolatri, perché restiamo nel guscio dell’io egocentrico. Se contemplo l’Ostia devo andare in unione profonda con Colui che è in essa».

Mi assale il timore di una deriva sincretistica: è il "pregiudizio" di cui parla padre Raniero Cantalamessa nella prefazione alla prima opera del mistico svizzero (Mendicante di luce, San Paolo 2006), dove paragona la conversione di Masterbee e Kicka a quella di Agostino. Nel pensiero dell’ex guru ci sono anche Maestro Eckhart, san Giovanni della Croce, se non l’anonimo della Nube della non conoscenza e le sue convergenze ante litteram con il mondo zen.

La Preghiera del cuore è altra cosa dai mantra del buddismo mahayana come da quelli induisti, in quanto «si basa su una Rivelazione storica, mentre Krishna e Shiva discendono da una rivelazione mitica».

Nel mantra induista, poi, «la divinità adorata resta un’essenza auto-trascendente» mentre il cristiano non perde mai il contatto con la Rivelazione. «Certo, le religioni asiatiche sfruttano le infinite capacità della mente, che è uno strumento e un limite»: sta confessando quanto sia stato difficile abbandonare le formule della tradizione orientale senza cadere nel sincretismo. Non ci sarebbe riuscito senza la Preghiera di Gesù: «Signore Gesù Cristo misericordia», cioè «Kyrie Jesu Christe Eleison».

L’invocazione degli ortodossi, pronunciata incessantemente con devozione e umiltà, permette di acquisire lo Spirito Santo e purifica anima e corpo. «Nella tradizione bizantina il corpo non è un nemico ma un alleato dell’anima. L’ascesi ortodossa è integrata con il cosmo e la natura, diversamente dalla tradizione occidentale»: anche il Jesus Mantra permette di raggiungere l’armonia tra corpo, mente e spirito, tuttavia, avverte, «l’orazione cristiana del profondo tramite il nome divino non può essere confusa con altri metodi di meditazione, poiché il Sé viene redento tramite la fede e non è invece la meta ultima». Lo sguardo si sposta sulla Chiesa: il carisma della spiritualità contemplativa è sempre più raro – annota – e, soprattutto ai giovani, occorre «una rieducazione alla vita spirituale e religiosa, perché c’è la tendenza a confondere i due piani».

Mentre parliamo appare Kicka in sari nero e sembra veramente uscita, come dice lui, da un quadro di Böcklin. La conversione ha lasciato il segno nella loro arte: gli psicocosmogrammi buddisti appartengono al passato, come i mahakala e i mandala, mutuati dalle tibetane. Kicka scolpisce la sofferenza della Croce e nelle neoiconografie di Masterbee tutto parla del Cristo. Del passato resta il bisogno di un confronto, perché «nessuno è fuori dal disegno salvifico di Dio».

Né il buddista che «non crede in un dio personale», né l’induista «che crede in un dio, seppur mitico». Il New age, invece, è «un pericolo» e lo yoga «può portare alla soggettività, base psicologica del relativismo». La risposta alle filosofie orientali «protese oltre l’ego» è una sola, la preghiera del profondo e «la resa incondizionata dell’ego a Cristo». Vale a dire questo suo silenzio orante: «Kyrie Jesu Christe Eleison».
Paolo Viana

Messaggio GMG:Tenere alto il desiderio

Come sempre semplice e chiaro, il Santo Padre mostra il centro della esperienza cristiana e gli effetti che ne conseguono.
In primis non si tratta di seguire una morale ma l'incontro con Gesù Cristo vivo e risorto. Dal suo sguardo , da questa particolare commozione che lo anima per il nostro destino e al nostra felicità, scaturisce la speranza la gioia e l'impegno alla vocazione a cui personalmente ci chiama.
Il lavoro è quello di incontrarlo e farsi incontrare, ascoltarlo, seguirlo.
E' la sfida che offre a chiunque , non solo ai giovani :<>.


MESSAGGIO DEL SANTO PADREBENEDETTO XVI PER LA XXV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ (28 MARZO 2010)

“Maestro buono, che cosa devo fareper avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17)
Cari amici,
ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario di istituzione della Giornata Mondiale della Gioventù, voluta dal Venerabile Giovanni Paolo II come appuntamento annuale dei giovani credenti del mondo intero. Fu una iniziativa profetica che ha portato frutti abbondanti, permettendo alle nuove generazioni cristiane di incontrarsi, di mettersi in ascolto della Parola di Dio, di scoprire la bellezza della Chiesa e di vivere esperienze forti di fede che hanno portato molti alla decisione di donarsi totalmente a Cristo.
La presente XXV Giornata rappresenta una tappa verso il prossimo Incontro Mondiale dei giovani, che avrà luogo nell'agosto 2011 a Madrid, dove spero sarete numerosi a vivere questo evento di grazia.
Per prepararci a tale celebrazione, vorrei proporvi alcune riflessioni sul tema di quest’anno: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17), tratto dall’episodio evangelico dell'incontro di Gesù con il giovane ricco; un tema già affrontato, nel 1985, dal Papa Giovanni Paolo II in una bellissima Lettera, diretta per la prima volta ai giovani.
1. Gesù incontra un giovane
“Mentre [Gesù] andava per la strada, – racconta il Vangelo di San Marco - un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni” (Mc 10, 17-22).
Questo racconto esprime in maniera efficace la grande attenzione di Gesù verso i giovani, verso di voi, verso le vostre attese, le vostre speranze, e mostra quanto sia grande il suo desiderio di incontrarvi personalmente e di aprire un dialogo con ciascuno di voi. Cristo, infatti, interrompe il suo cammino per rispondere alla domanda del suo interlocutore, manifestando piena disponibilità verso quel giovane, che è mosso da un ardente desiderio di parlare con il «Maestro buono», per imparare da Lui a percorrere la strada della vita. Con questo brano evangelico, il mio Predecessore voleva esortare ciascuno di voi a “sviluppare il proprio colloquio con Cristo - un colloquio che è d'importanza fondamentale ed essenziale per un giovane” (Lettera ai giovani, n. 2).
2. Gesù lo guardò e lo amò
Nel racconto evangelico, San Marco sottolinea come “Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (cfr Mc 10,21). Nello sguardo del Signore c’è il cuore di questo specialissimo incontro e di tutta l’esperienza cristiana. Infatti il cristianesimo non è primariamente una morale, ma esperienza di Gesù Cristo, che ci ama personalmente, giovani o vecchi, poveri o ricchi; ci ama anche quando gli voltiamo le spalle.
Commentando la scena, il Papa Giovanni Paolo II aggiungeva, rivolto a voi giovani: “Vi auguro di sperimentare uno sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi guarda con amore!” (Lettera ai giovani, n. 7). Un amore, manifestatosi sulla Croce in maniera così piena e totale, che fa scrivere a san Paolo, con stupore: “Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). “La consapevolezza che il Padre ci ha da sempre amati nel suo Figlio, che il Cristo ama ognuno e sempre – scrive ancora il Papa Giovanni Paolo II -, diventa un fermo punto di sostegno per tutta la nostra esistenza umana” (Lettera ai giovani, n. 7), e ci permette di superare tutte le prove: la scoperta dei nostri peccati, la sofferenza, lo scoraggiamento.
In questo amore si trova la sorgente di tutta la vita cristiana e la ragione fondamentale dell'evangelizzazione: se abbiamo veramente incontrato Gesù, non possiamo fare a meno di testimoniarlo a coloro che non hanno ancora incrociato il suo sguardo!
3. La scoperta del progetto di vita
Nel giovane del Vangelo, possiamo scorgere una condizione molto simile a quella di ciascuno di voi. Anche voi siete ricchi di qualità, di energie, di sogni, di speranze: risorse che possedete in abbondanza! La stessa vostra età costituisce una grande ricchezza non soltanto per voi, ma anche per gli altri, per la Chiesa e per il mondo.
Il giovane ricco chiede a Gesù: “Che cosa devo fare?”. La stagione della vita in cui siete immersi è tempo di scoperta: dei doni che Dio vi ha elargito e delle vostre responsabilità. E’, altresì, tempo di scelte fondamentali per costruire il vostro progetto di vita. E’ il momento, quindi, di interrogarvi sul senso autentico dell’esistenza e di domandarvi: “Sono soddisfatto della mia vita? C'è qualcosa che manca?”.
Come il giovane del Vangelo, forse anche voi vivete situazioni di instabilità, di turbamento o di sofferenza, che vi portano ad aspirare ad una vita non mediocre e a chiedervi: in che consiste una vita riuscita? Che cosa devo fare? Quale potrebbe essere il mio progetto di vita? “Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno senso?” (Ibid., n. 3).
Non abbiate paura di affrontare queste domande! Lontano dal sopraffarvi, esse esprimono le grandi aspirazioni, che sono presenti nel vostro cuore. Pertanto, vanno ascoltate. Esse attendono risposte non superficiali, ma capaci di soddisfare le vostre autentiche attese di vita e di felicità.
Per scoprire il progetto di vita che può rendervi pienamente felici, mettetevi in ascolto di Dio, che ha un suo disegno di amore su ciascuno di voi. Con fiducia, chiedetegli: “Signore, qual è il tuo disegno di Creatore e Padre sulla mia vita? Qual è la tua volontà? Io desidero compierla”. Siate certi che vi risponderà. Non abbiate paura della sua risposta! “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20)!
4. Vieni e seguimi!
Gesù, invita il giovane ricco ad andare ben al di là della soddisfazione delle sue aspirazioni e dei suoi progetti personali, gli dice: “Vieni e seguimi!”. La vocazione cristiana scaturisce da una proposta d’amore del Signore e può realizzarsi solo grazie a una risposta d’amore: “Gesù invita i suoi discepoli al dono totale della loro vita, senza calcolo e tornaconto umano, con una fiducia senza riserve in Dio. I santi accolgono quest'invito esigente, e si mettono con umile docilità alla sequela di Cristo crocifisso e risorto. La loro perfezione, nella logica della fede talora umanamente incomprensibile, consiste nel non mettere più al centro se stessi, ma nello scegliere di andare controcorrente vivendo secondo il Vangelo” (Benedetto XVI, Omelia in occasione delle Canonizzazioni: L’Osservatore Romano, 12-13 ottobre 2009, p. 6).
Sull’esempio di tanti discepoli di Cristo, anche voi, cari amici, accogliete con gioia l’invito alla sequela, per vivere intensamente e con frutto in questo mondo. Con il Battesimo, infatti, egli chiama ciascuno a seguirlo con azioni concrete, ad amarlo sopra ogni cosa e a servirlo nei fratelli. Il giovane ricco, purtroppo, non accolse l’invito di Gesù e se ne andò rattristato. Non aveva trovato il coraggio di distaccarsi dai beni materiali per trovare il bene più grande proposto da Gesù.
La tristezza del giovane ricco del Vangelo è quella che nasce nel cuore di ciascuno quando non si ha il coraggio di seguire Cristo, di compiere la scelta giusta. Ma non è mai troppo tardi per rispondergli!
Gesù non si stanca mai di volgere il suo sguardo di amore e chiamare ad essere suoi discepoli, ma Egli propone ad alcuni una scelta più radicale. In quest'Anno Sacerdotale, vorrei esortare i giovani e i ragazzi ad essere attenti se il Signore invita ad un dono più grande, nella via del Sacerdozio ministeriale, e a rendersi disponibili ad accogliere con generosità ed entusiasmo questo segno di speciale predilezione, intraprendendo con un sacerdote, con il direttore spirituale il necessario cammino di discernimento. Non abbiate paura, poi, cari giovani e care giovani, se il Signore vi chiama alla vita religiosa, monastica, missionaria o di speciale consacrazione: Egli sa donare gioia profonda a chi risponde con coraggio!
Invito, inoltre, quanti sentono la vocazione al matrimonio ad accoglierla con fede, impegnandosi a porre basi solide per vivere un amore grande, fedele e aperto al dono della vita, che è ricchezza e grazia per la società e per la Chiesa.
5. Orientati verso la vita eterna
“Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Questa domanda del giovane del Vangelo appare lontana dalle preoccupazioni di molti giovani contemporanei, poiché, come osservava il mio Predecessore, “non siamo noi la generazione, alla quale il mondo e il progresso temporale riempiono completamente l'orizzonte dell'esistenza?” (Lettera ai giovani, n. 5). Ma la domanda sulla “vita eterna” affiora in particolari momenti dolorosi dell’esistenza, quando subiamo la perdita di una persona vicina o quando viviamo l’esperienza dell’insuccesso.
Ma cos’è la “vita eterna” cui si riferisce il giovane ricco? Ce lo illustra Gesù, quando, rivolto ai suoi discepoli, afferma: “Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22). Sono parole che indicano una proposta esaltante di felicità senza fine, della gioia di essere colmati dall'amore divino per sempre.
Interrogarsi sul futuro definitivo che attende ciascuno di noi dà senso pieno all’esistenza, poiché orienta il progetto di vita verso orizzonti non limitati e passeggeri, ma ampi e profondi, che portano ad amare il mondo, da Dio stesso tanto amato, a dedicarci al suo sviluppo, ma sempre con la libertà e la gioia che nascono dalla fede e dalla speranza. Sono orizzonti che aiutano a non assolutizzare le realtà terrene, sentendo che Dio ci prepara una prospettiva più grande, e a ripetere con Sant’Agostino: “Desideriamo insieme la patria celeste, sospiriamo verso la patria celeste, sentiamoci pellegrini quaggiù” (Commento al Vangelo di San Giovanni, Omelia 35, 9). Tenendo fisso lo sguardo alla vita eterna, il Beato Pier Giorgio Frassati, morto nel 1925 all'età di 24 anni, diceva: “Voglio vivere e non vivacchiare!” e sulla foto di una scalata, inviata ad un amico, scriveva: “Verso l’alto”, alludendo alla perfezione cristiana, ma anche alla vita eterna.
Cari giovani, vi esorto a non dimenticare questa prospettiva nel vostro progetto di vita: siamo chiamati all’eternità. Dio ci ha creati per stare con Lui, per sempre. Essa vi aiuterà a dare un senso pieno alle vostre scelte e a dare qualità alla vostra esistenza.
6. I comandamenti, via dell'amore autentico
Gesù ricorda al giovane ricco i dieci comandamenti, come condizioni necessarie per “avere in eredità la vita eterna”. Essi sono punti di riferimento essenziali per vivere nell’amore, per distinguere chiaramente il bene dal male e costruire un progetto di vita solido e duraturo. Anche a voi, Gesù chiede se conoscete i comandamenti, se vi preoccupate di formare la vostra coscienza secondo la legge divina e se li mettete in pratica.
Certo, si tratta di domande controcorrente rispetto alla mentalità attuale, che propone una libertà svincolata da valori, da regole, da norme oggettive e invita a rifiutare ogni limite ai desideri del momento. Ma questo tipo di proposta invece di condurre alla vera libertà, porta l'uomo a diventare schiavo di se stesso, dei suoi desideri immediati, degli idoli come il potere, il denaro, il piacere sfrenato e le seduzioni del mondo, rendendolo incapace di seguire la sua nativa vocazione all'amore.
Dio ci dà i comandamenti perché ci vuole educare alla vera libertà, perché vuole costruire con noi un Regno di amore, di giustizia e di pace. Ascoltarli e metterli in pratica non significa alienarsi, ma trovare il cammino della libertà e dell'amore autentici, perché i comandamenti non limitano la felicità, ma indicano come trovarla. Gesù all'inizio del dialogo con il giovane ricco, ricorda che la legge data da Dio è buona, perché “Dio è buono”.
7. Abbiamo bisogno di voi
Chi vive oggi la condizione giovanile si trova ad affrontare molti problemi derivanti dalla disoccupazione, dalla mancanza di riferimenti ideali certi e di prospettive concrete per il futuro. Talora si può avere l'impressione di essere impotenti di fronte alle crisi e alle derive attuali. Nonostante le difficoltà, non lasciatevi scoraggiare e non rinunciate ai vostri sogni! Coltivate invece nel cuore desideri grandi di fraternità, di giustizia e di pace. Il futuro è nelle mani di chi sa cercare e trovare ragioni forti di vita e di speranza. Se vorrete, il futuro è nelle vostre mani, perché i doni e le ricchezze che il Signore ha rinchiuso nel cuore di ciascuno di voi, plasmati dall’incontro con Cristo, possono recare autentica speranza al mondo! È la fede nel suo amore che, rendendovi forti e generosi, vi darà il coraggio di affrontare con serenità il cammino della vita ed assumere responsabilità familiari e professionali. Impegnatevi a costruire il vostro futuro attraverso percorsi seri di formazione personale e di studio, per servire in maniera competente e generosa il bene comune.
Nella mia recente Lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale, Caritas in veritate, ho elencato alcune grandi sfide attuali, che sono urgenti ed essenziali per la vita di questo mondo: l'uso delle risorse della terra e il rispetto dell'ecologia, la giusta divisione dei beni e il controllo dei meccanismi finanziari, la solidarietà con i Paesi poveri nell'ambito della famiglia umana, la lotta contro la fame nel mondo, la promozione della dignità del lavoro umano, il servizio alla cultura della vita, la costruzione della pace tra i popoli, il dialogo interreligioso, il buon uso dei mezzi di comunicazione sociale.
Sono sfide alle quali siete chiamati a rispondere per costruire un mondo più giusto e fraterno. Sono sfide che chiedono un progetto di vita esigente ed appassionante, nel quale mettere tutta la vostra ricchezza secondo il disegno che Dio ha su ciascuno di voi. Non si tratta di compiere gesti eroici né straordinari, ma di agire mettendo a frutto i propri talenti e le proprie possibilità, impegnandosi a progredire costantemente nella fede e nell'amore.
In quest'Anno Sacerdotale, vi invito a conoscere la vita dei santi, in particolare quella dei santi sacerdoti. Vedrete che Dio li ha guidati e che hanno trovato la loro strada giorno dopo giorno, proprio nella fede, nella speranza e nell'amore. Cristo chiama ciascuno di voi a impegnarsi con Lui e ad assumersi le proprie responsabilità per costruire la civiltà dell’amore. Se seguirete la sua Parola, anche la vostra strada si illuminerà e vi condurrà a traguardi alti, che danno gioia e senso pieno alla vita.
Che la Vergine Maria, Madre della Chiesa, vi accompagni con la sua protezione. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e con grande affetto vi benedico.
Dal Vaticano, 22 Febbraio 2010

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 14 marzo 2010

Angelus:il volto di Dio, anzi il cuore !!

Cari fratelli e sorelle!
In questa quarta domenica di Quaresima viene proclamato il Vangelo del padre e dei due figli, più noto come parabola del “figlio prodigo” (Lc 15,11-32). Questa pagina di san Luca costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Infatti, che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio Padre pieno di misericordia? Essa non smette mai di commuoverci, e ogni volta che l’ascoltiamo o la leggiamo è in grado di suggerirci sempre nuovi significati. Soprattutto, questo testo evangelico ha il potere di parlarci di Dio, di farci conoscere il suo volto, meglio ancora, il suo cuore. Dopo che Gesù ci ha raccontato del Padre misericordioso, le cose non sono più come prima, adesso Dio lo conosciamo: Egli è il nostro Padre, che per amore ci ha creati liberi e dotati di coscienza, che soffre se ci perdiamo e che fa festa se ritorniamo. Per questo, la relazione con Lui si costruisce attraverso una storia, analogamente a quanto accade ad ogni figlio con i propri genitori: all’inizio dipende da loro; poi rivendica la propria autonomia; e infine – se vi è un positivo sviluppo – arriva ad un rapporto maturo, basato sulla riconoscenza e sull’amore autentico.
In queste tappe possiamo leggere anche momenti del cammino dell’uomo nel rapporto con Dio. Vi può essere una fase che è come l’infanzia: una religione mossa dal bisogno, dalla dipendenza. Via via che l’uomo cresce e si emancipa, vuole affrancarsi da questa sottomissione e diventare libero, adulto, capace di regolarsi da solo e di fare le proprie scelte in modo autonomo, pensando anche di poter fare a meno di Dio. Questa fase, appunto, è delicata, può portare all’ateismo, ma anche questo, non di rado, nasconde l’esigenza di scoprire il vero volto di Dio. Per nostra fortuna, Dio non viene mai meno alla sua fedeltà e, anche se noi ci allontaniamo e ci perdiamo, continua a seguirci col suo amore, perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza per richiamarci a sé. Nella parabola, i due figli si comportano in maniera opposta: il minore se ne va e cade sempre più in basso, mentre il maggiore rimane a casa, ma anch’egli ha una relazione immatura con il Padre; infatti, quando il fratello ritorna, il maggiore non è felice come lo è, invece, il Padre, anzi, si arrabbia e non vuole rientrare in casa. I due figli rappresentano due modi immaturi di rapportarsi con Dio: la ribellione e una obbedienza infantile. Entrambe queste forme si superano attraverso l’esperienza della misericordia. Solo sperimentando il perdono, riconoscendosi amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, ma anche della nostra giustizia, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio.
Cari amici, meditiamo questa parabola. Rispecchiamoci nei due figli, e soprattutto contempliamo il cuore del Padre. Gettiamoci tra le sue braccia e lasciamoci rigenerare dal suo amore misericordioso. Ci aiuti in questo la Vergine Maria, Mater misericordiae.

giovedì 4 marzo 2010

Ruini su p.Matteo Ricci


4 Marzo 2010

Matteo Ricci tomista alla cinese
Matteo Ricci è giustamente ritenuto un genio dell’inculturazione del cristianesimo – e in concreto del cattolicesimo – in un Paese e in una civiltà estremamente diversi da quelli nei quali il cattolicesimo aveva allora il suo baricentro, e più ampiamente da quelli in precedenza penetrati dal cristianesimo. Si può aggiungere che la «strategia dell’inculturazione» adottata da Matteo Ricci risentì certamente delle condizioni imposte dall’autosufficienza del mondo cinese e dalla sua diffidenza nei confronti degli stranieri. Il genio di Ricci seppe accogliere quelle condizioni e volgerle al servizio della missione.Molto peso viene attribuito, giustamente, alle parole da lui scelte per esprimere in quel linguaggio così diverso i concetti portanti della nostra fede, a cominciare dalla parola «Dio», che egli ha reso con Tian zhu – «Signore del Cielo» –, o anche con Shang» – «Sovrano dall’Alto» –: una scelta coraggiosa, anche perché esposta «ad un’ampia gamma di fraintendimenti», come osserva Alessandra Chiricosta nella sua approfondita introduzione all’edizione italiana dell’opera di Ricci Il vero significato del «Signore del Cielo» (Urbaniana University press). Leggendo però tale opera, si può constatare che Matteo Ricci spiega con chiarezza il concetto cristiano dell’unico Dio, così come era formulato e argomentato nella teologia scolastica del suo tempo, superando in tal modo il rischio di fraintendimenti o interpretazioni riduttive e fuorvianti. Inoltre Ricci aggiunge, ad evitare ogni equivoco: «Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus». È anche molto interessante che egli precisi espressamente che, nell’esporre i principi degli insegnamenti del Signore del Cielo, la sua «spiegazione sarà basata sulla sola razionalità». Ciò sebbene egli faccia menzione degli «scritti canonici» in cui questa dottrina è contenuta «in modo tale da non lasciar adito a dubbi». Questa scelta di basarsi sulla sola razionalità, oltre alle ben note e giustamente sottolineate motivazioni legate all’ambiente culturale in cui Matteo Ricci intendeva penetrare, mi sembra non sia senza rapporti con la teologia nella quale egli si era formato, una teologia che tendeva ad «indurire» la puntuale distinzione di san Tommaso tra ragione e fede.In particolare riguardo alla conoscenza di Dio, la via della ragione viene concepita come del tutto evidente e apodittica, ciò che poteva corrispondere al clima culturale di allora ma nel nostro tempo sarebbe difficilmente sostenibile. Perciò oggi, senza rinunciare all’argomentazione razionale nell’approccio a Dio, è sottolineata anche l’importanza delle nostre disposizioni morali e scelte esistenziali, quindi il ruolo della nostra libertà. Così la via della ragione e quella della fede, pur rimanendo ben distinte, risultano meno dissimili e più vicine l’una all’altra. La decisione di procedere basandosi soltanto sulla razionalità offre a Ricci una giustificazione teologica per la scelta, dettata anch’essa anzitutto dalle sue finalità di «strategia» missionaria e culturale, di ridurre al minimo il riferimento esplicito a Gesù Cristo. Soltanto nell’ultimo capitolo di <+corsivo>Il vero significato del «Signore del Cielo»<+tondo> si trova infatti una breve «spiegazione» della ragione per la quale il Signore del Cielo è nato in Occidente, senza però far menzione delle tre Persone della Trinità e dell’incarnazione specificamente del Figlio e senza accennare in alcun modo alla sua croce e alla sua morte.Specialmente qui appare con grande chiarezza che l’intenzione e il metodo missionari di Matteo Ricci erano contrassegnati dalla gradualità, ossia da una sorta di «pedagogia», che in qualche modo poteva richiamarsi alla «pedagogia» che presiede allo sviluppo della rivelazione attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento. Non è pensabile, infatti, che un missionario innamorato di Cristo e convinto che solo in lui, nella sua passione, morte e risurrezione, si è aperta la strada per la salvezza dell’umanità, potesse concepire il silenzio sulla Trinità e sulla croce se non come provvisorio. Fin dall’inizio, del resto, Matteo Ricci ha insegnato le verità della fede cristiana attraverso sussidi e catechismi in lingua cinese redatti per i catecumeni e i battezzati.Matteo Ricci si è ampiamente servito delle sue conoscenze scientifiche e tecnologiche – ancora «pre-galileiane» ma già permeate da un nuovo spirito – per accreditarsi culturalmente nell’universo culturale cinese. Oggi le scienze e le tecnologie sono diventate il più potente fattore di globalizzazione e di unificazione del mondo e le loro conquiste vengono trasmesse in tempo reale dall’una all’altra parte della terra. È profondamente cambiato, però, il modo stesso di concepire la ragione e la razionalità: alla verità come adeguamento alla realtà, nel quale tutti devono ritrovarsi, è largamente subentrata l’idea di una verità soltanto «operativa», intesa come ciò che è possibile fare e realizzare, in particolare attraverso la razionalità scientifica e tecnologica.Vi è poco spazio, invece, per una verità oggettiva in tutti quei campi che la razionalità scientifico-tecnologica – per i suoi intrinseci limiti metodologici – lascia scoperti: tra questi in particolare i grandi interrogativi sul senso e la direzione della nostra vita e dell’intera realtà. In queste materie ciò che sembra importante sono piuttosto le preferenze personali dei singoli e, quando si tratta di decisioni comuni e vincolanti, l’opinione della maggioranza. Questo relativismo, che oggi cerca di penetrare anche dentro la fede e la teologia, è forse il problema più grande della nostra epoca.Nello studio delle culture e delle religioni l’attuale relativismo si esprime nei procedimenti rigorosamente a-valutativi, che interdicono di istituire confronti di valore tra le diverse culture e religioni e si limitano a descrivere e inquadrare concettualmente le loro parentele, analogie e differenze. In questa prospettiva ogni rivendicazione di verità e di valenza salvifica del cristianesimo diventa improponibile e quindi la missione cristiana perde la sua intrinseca giustificazione e ragion d’essere: semmai dovrebbe limitarsi a un aiuto umanitario, senza la finalità di convertire al cristianesimo. Siamo lontanissimi dall’approccio di Matteo Ricci che, nella sua opera culturale-missionaria, faceva leva proprio sulla verità e capacità salvifica di ciò che andava proponendo.
Camillo Ruini

mercoledì 3 marzo 2010

Un giudizio sul Terremoto del Cile

TERREMOTO IN CILE«Il volto che ci aiuta ad entrare in questo mistero»Dopo il violento terremoto che ha colpito il Paese sudamericano, gli amici del movimento cileni hanno scritto un messaggio
Cari amici,davanti al terremoto che ha colpito il nostro Paese, diviene ancora più evidente che la vita è un mistero e non ci appartiene.Di fronte alla bellezza della natura cilena sorge sempre una domanda: «Chi ne è l’autore?».Allo stesso modo, davanti alla grandezza di questo terremoto, ci sentiamo piccoli, impotenti e fragili.Tuttavia, da questa esperienza nasce un’altra domanda: «Cosa chiede a noi il Signore attraverso questa circostanza?».Anche recentemente, nella nostra compagnia e in molti testimoni, abbiamo visto il volto trasfigurato di Cristo che si rende conoscibile, e questa esperienza ci aiuta a entrare nel mistero della Croce.Senza Cristo, la bellezza avrebbe come esito una triste malinconia, e il dramma si volgerebbe in tragedia, come ci ha ricordato Carrón in occasione del terremoto di Haiti.Per questo siamo invitati a pregare per tutti coloro che soffrono le conseguenze di questo dramma, e abbiamo altresì il dovere di fare che la carità che abbiamo ricevuto trabocchi in una condivisione concreta delle necessità del popolo cileno.Comunione e Liberazione (Cile)

La corruzione:segno di un cuore che non ha capito di cosa ha bisogno

Prestiamo attenzione a questo articolo che descrive esattamente il cuore di coloro che si implicano di questi tempi dentro il vizio avido della corruzione .Ma prima di ogni cosa , per non fare i moralisti , bisogna fare attenzione a quale amore attacchiamo la nostra vita anche noi.Gesù avrebbe detto dove attacchiamo il nostro "cuore"!!Da li proviene la paura o la speranza.

Editoriale
Corrotti si nasce o si diventa?
Massimo Camisasca
martedì 2 marzo 2010
«Se la corruzione è un grave danno dal punto di vista materiale e un enorme costo per la crescita economica, ancora più negativi sono i suoi effetti sui beni immateriali, legati più strettamente alla dimensione qualitativa e umana della vita sociale» (Pont. Cons. Giustizia e Pace, Lotta alla corruzione, 4).

Leggendo i giornali di questi ultimi giorni la prima impressione è quella di un’enorme confusione. Il lettore normale, come penso di essere, non riesce a raccapezzarsi. Che cosa è accaduto? Che cosa sta accadendo? Siamo di fronte a qualcosa di nuovo o semplicemente al ripetersi di un vizio antico e inveterato?

Dobbiamo uscire da ogni visione moralistica ed entrare in un autentico giudizio morale. La storia dei popoli, da quando la conosciamo, è segnata dalla corruzione. Sant’Agostino parlava di magna latrocinia: «Se togliamo il fondamento della giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi associazioni a delinquere?» (De civ. Dei, 4,4).

Eppure qualcosa di nuovo e di tragico sta accadendo sotto i nostri occhi. Non tanto la presenza del male, che caratterizza la vita di ogni uomo in ogni tempo. È nuovo il disorientamento che regna nel cuore di tanti uomini. Qual è la strada verso una vita buona? Quale la via verso rapporti tra gli uomini che diano la soddisfazione di vivere sulla terra?

Viviamo infatti in un’epoca in cui dominano l’ansia e la paura. L’ansia di non potere avere a sufficienza, la paura che venga la morte a portarci via tutto. Tutto deve essere ottenuto in un tempo breve perché non c’è altro tempo. Del doman non v’è certezza scriveva Lorenzo De’ Medici all’inizio dell’età moderna. L’incertezza nei nostri tempi porta taluni a un’avidità insaziabile che acceca.

L’insicurezza riguardo al proprio futuro è tipica delle età in cui viene meno la speranza. La crisi della natalità che caratterizza il nostro Occidente è un indice tragico di questa incapacità a guardare oltre la propria individualità e oltre l’attimo presente. Non ci sono più figli a cui tramandare qualcosa, non c’è una storia personale da salvare.

Anche la povertà delle esperienze affettive, che muoiono presto e hanno bisogno subito di essere sostituite da altre esperienze, porta le persone a rischiare oltre il ragionevole pur di avere qualcosa tra le mani che giustifichi il presente. Ci si attacca al denaro come all’unica sicurezza. Già Dante ricordava che superbia invidia ed avarizia sono / le tre faville ch’ hanno i cuori accesi (Inf., VI). Abbiamo spento troppi fuochi. I fuochi della carità, della bellezza, della gioia di stare assieme, di curvarci sugli altri, di godere di una canzone, di un tramonto, di un bacio. Il freddo che ne è nato porta a rischi spaventosi. Pur di avere qualcosa da stringere.


Dobbiamo tornare a riscoprire il valore sociale delle virtù cristiane, buone per chi crede e per chi non crede, capaci di fondare una convivenza ragionevolmente umana. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, ognuno può credere di essere dio. All’euforia succede la depressione. Le civiltà si chiudono così su se stesse e perdono ogni creatività.

La sfida di oggi è assolutamente radicale. Ci porta alle radici delle questioni, ci fa vedere il percorso semplice che può aiutare a scrivere una strada di rinascita. Primo: la vita è un dono positivo per chiunque, malato o sano, povero o ricco, colto o ignorante e non va sprecata. Secondo: da soli non si va da nessuna parte. Imparare ad accogliere e ad amare è una strada essenziale per amare se stessi. Terzo: quando scopriamo di essere perdonati, diventiamo anche capaci di costruire qualcosa che rimane e sa coinvolgere altre persone.

Volere il bene degli altri è la strada principale per voler bene a se stessi. Badare soltanto al proprio arricchimento porta inesorabilmente all’autodistruzione e a un male generalizzato.